La Villa del Boccaglione – La storia
Nel 2021 è stato pubblicato il secondo volume di una nostra collana “RIFLESSIONI – Studi della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria sulla Tutela del Patrimonio Culturale”, che ha visto impegnati alcuni nostri colleghi. Il volume in questione ha come soggetto proprio la Villa del Boccaglione. Pubblichiamo quindi parte dei testi che prendono in esame tanti aspetti della villa in maniera puntuale e precisa: dalla storia del nome alle prime ipotesi attributive; dal contesto storico in cui si è sviluppata la sua costruzione con la descrizione del luogo su cui sorge; vengono esaminati alcuni aspetti originali che la contraddistinguono: le scale, il cupolino dei venti, i giardini. Viene raccontato infine come l’allora Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali ne acquisisce la proprietà e dello stato in cui versa la Villa al momento dell’acquisizione con l’avvio dei primi restauri.
I testi che seguono, liberamente tratti dal volume, (abbiamo eliminato le foto e le note per una migliore fluidità di lettura), sono dell’Arch. Valeriana Mazzasette, già Funzionario di questa Soprintendenza.
BOCCAGLIONE – STORIA DEL NOME E DELLE PROPRIETA’
Il nome attuale della Villa Boccaglione nella piana di Bettona, così particolare, è un nome moderno che deriva dalla trasformazione del termine Bucajone o Bucaione (usata dal XIV secolo), toponimo che identifica il vocabolo, definito poggio o balìa. Bucaione a sua volta è la trasformazione del nome originario Bucaronis. Il termine che non ha origini latine, fu usato dal VII al XII secolo d. C. per identificare la proprietà del gastaldo longobardo, vissuto nel luogo dove poi nel XVIII venne costruita la Villa dei Crispolti. La sua più antica attestazione, secondo Francesco Santucci potrebbe essere quella contenuta nella Legenda di San Crispolto in Ca(m)po silicet Bucaronis o in Campo Bucaionis, dove, secondo la legenda, sarebbe stato decapitato il bifolco Baronzio, seguace del martire Crispolto. Il genitivo latino Bucaronis o Bucaionis dovrebbe specificare il nome del proprietario, cioè “Bucarone” o “Bucaione”, antroponimo (forse nomignolo) tardomedioevale, di incerta origine. Anche l’impiego del sostantivo campus, seguito dal nome dei possessori di questa terra, denota un uso linguistico tardo rispetto al modello dei prediali latini di matrice gentilizia con desinenza –anum (ital. –ano): esempi, in tal senso, ci sono offerti da altri personaggi bettonesi quali Pugliano e Calcagnano, nonché da una cospicua serie di attestazioni prediali dei secoli XII-XIII di aree contermini. Nella sua opera Federico Santucci di seguito precisa che, seppure “l’espressione toponimica in questione riflette una forma linguistica tarda – almeno posteriore al Mille – la Legenda sancti Crispoliti che la tramanda, dovrebbe essere stata scritta dopo tale data, forse addirittura nei secoli XII – XIII, come, con motivazioni diverse, si sostiene anche da altri”. Il nome della Villa può inoltre connettersi con il toponimo “Bucaronis” che individuava un terreno in questa località. La definizione è attinente al termine “buca” che richiama la caratteristica morfologica propria dell’avvallamento naturale coincidente con il letto dell’antico Lacus Umber, citato dal poeta Properzio, nelle elegie e che occupava quella parte di pianura attualmente definita come valle umbra. Tuttavia anche un altro toponimo individua il sito dove sorge la Villa Bucajone: studi storici ipotizzano che in questo luogo sorgesse un insediamento longobardo detto “Sala” che, come si sa, presso i Longobardi, designava una “corte” o “edificio” e, specificatamente, una “casa per la residenza padronale nella curtis o per la raccolta delle derrate dovute al padrone” e che ancora oggi è presente in tre espressioni toponimiche: la Sala, Colle Sala e Fonte Sala (non cartografati, però, dall’I.G.M.), ubicati sopra un poggio tra Bettona e l’abbazia di San Crispolto del Piano. Non a caso nell’Ottocento troviamo la Villa Bucajone accatastata sotto il nome della località “Colle Sala”; il Campo Bucaronis o Bucajone, diviene il toponimo che ne individua il luogo. Il toponimo originario, nel corso dei secoli, ha subìto diverse alterazioni e sostituzioni, e talune approssimazioni nel linguaggio o forse l’incomprensione dei testi scritti, ha portato al moderno nome Boccaglione che deriva dalle più antiche espressioni toponimiche sopra richiamate, e tra questi “Bucajone” o anche “Boccaglione”, usato anche dal Giuseppe Bianconi. Infine il termine consegue un ulteriore passo avanti verso l’attuale toponimo, nella conformazione di “Boccajone”, all’interno del Catasto Gregoriano, che già raffigurava con un buon livello di dettaglio l’impianto architettonico della villa. Il sito viene chiamato nello stesso modo anche nella Cronaca manoscritta di Bettona del XIX secolo, in cui si descrive lungamente la chiesa della Villa Crispolti. Il Barone Giuseppe Crispolti, erede di Pietro Crispolti già Cavaliere di Malta, ammesso nell’elenco dell’ordine con la data 27 giugno del 1708 e di Teresa Perotti, fu un diretto erede dei beni di famiglia collocati vicino al Sambro. Dai documenti archivistici del Catasto di Bettona già dal 1731 il Cavaliere Pietro Crispolti risulta impegnato nella gestione di numerosi terreni della zona circostante l’attuale villa, dove scorreva il fiume Sambro. Furono probabilmente Pietro e Teresa che decisero di costruire qui la loro nuova dimora che necessitava di un ampio spazio per le scuderie come si confaceva ad un esponente dell’alta carica della Chiesa del Priorato di Malta. Essere Cavalieri di Malta era una loro tradizione familiare, anche un altro Fabrizio Crispolti, era Cavaliere iscritto all’elenco, con data 23 giugno 1684, così come lo furono i Crispolti del ceppo di Rieti, Francesco Maria Crispolti (1672) e il famoso Tullio, autore religioso cinquecentesco. Inoltre si dice che anche la nobildonna Celidora Crispolti, (al cui figlio l’Arciprete Fabrizio della Penna Crispolti figlio di Adriano Della Penna andrà l’eredità di Giuseppe) cagionevole di salute, visse nell’accogliente dimora nella zona pianeggiante e salubre del Bucajone. La Famiglia Crispolti, del resto, ebbe un ruolo decisivo per la storia di Bettona, fin dai tempi della guerra decennale, che oppose Federico II al papato, ovvero già a partire dagli anni1236-1239. In quel tempo, diverse città avevano giurato fedeltà al papa Gregorio IX, ormai in aperto contrasto con l’imperatore il quale considerava il ducato di Spoleto come una propria diretta giurisdizione e per difenderla aveva intrapreso, fin dal 1222, azioni finalizzate a intromettere propri officiali sodali nelle città e nei castelli del territorio. Come riportato da Federico Santucci nell’opera citata, Bianconi registra sotto il 1226 la notizia che due milites bettonesi, Ugolino Crispolti e Nello di Rosciano, seguirono Federico II in Lombardia. Inoltre, nella documentazione relativa alla sottomissione di Bettona ad Assisi sono accostati Ugolino Crispolti e Iacobus Crispolti Macaci; di loro, come precisa Santucci, “possiamo soltanto dire che facevano parte del ceto dominante del neonato comune di Bettona, ma è già notevole che questa famiglia, caso unico nel contesto bettonese dell’epoca, fosse rappresentata sia nel consiglio generale che in quello speciale”. Come è deducibile già dalle brevi notizie sopra riportate, la cittadina di Bettona, insediamento urbano d’origine etrusca, fu spesso teatro di importanti episodi e vicissitudini storiche e fu anche luogo preferito da illustri casate. Si è già detto della famiglia Crispolti, ma sarà anche il casato Baglioni che imporrà la sua tormentata signoria sulla città nella prima metà del Cinquecento. Dopo essersi sbarazzati dell’opposizione delle altre nobili famiglie perugine, e quella degli Oddi in primo luogo, furono Guido e Rodolfo Baglioni ad imporsi esercitando il loro dominio personale nella città non tanto de iure quanto de facto. Il dominio dei Baglioni su Bettona durò ininterrottamente fino al 1648 quando con la morte del vescovo di Assisi, Malatesta V Baglioni, si estinse la linea dei conti investiti e la Camera Apostolica riprese possesso di Bettona attraverso il governatore di Assisi là inviato dal pontefice in qualità di Commissario. Bettona divenne territorio pontificio annesso alle più grandi città di Assisi, Perugia, Spoleto, con le quali intreccerà la sua storia. Più tardi la famiglia Crispolti rafforzò e consolidò il proprio legame con Bettona, quando i suoi componenti divennero i maggiori proprietari terrieri della zona, e vennero eletti Mallevadori e Garanti della Tesoreria Pontificia. La famiglia Crispolti si dimostrò sempre attenta alle mode del momento e fece sempre fronte alla naturale competizione con le altre famiglie nobiliari e soprattutto con quelle proprietarie di lussuose dimore nelle città vicine. Il sito, perfettamente pianeggiante, compreso nel bacino fluviale del fiume Chiascio, nella sua confluenza con il Topino, la grande spazialità che presentava, la ricchezza delle sorgenti naturali presenti nei colli circostanti, permisero ai Crispolti di pensare in grande la loro residenza di campagna, collocata peraltro al centro dei loro vasti possedimenti terrieri. Anche i giardini della villa, oggi in fase di restauro, sono stati progettati e realizzati secondo le più avanzate tecniche idrauliche del tempo. Il XVIII secolo è anche l’età in cui l’ingegneria idraulica ritorna ad emulare gli antichi fasti del periodo classico, grazie ai numerosi progetti di giardini monumentali, basti citare la Reggia di Caserta pensata dal maestro Vanvitelli per Carlo di Borbone (iniziata dal 1751). La costruzione di questo complesso venne avviata nella seconda metà del Settecento su sito di un probabile preesistente edificio già di proprietà della famiglia, con funzione non solo di polo di riferimento della tenuta circostante, ma anche e soprattutto con la chiara funzione di rappresentanza: l’architettura e la gradevolezza degli spazi verdi, dovevano comunicare l’agiatezza, il potere economico e il prestigio sociale raggiunto dalla famiglia, che intendeva e poteva ora legittimamente confrontare la sua dimora con le prestigiose residenze cittadine che in quegli anni, molte delle nobili famiglie, stavano realizzando nella vicina Perugia. Successivamente la proprietà della villa e dei suoi terreni, passò agli Arcipreti della Penna Crispolti che ne risultano intestatari ancora nel 1818, come attestato dal Catasto Gregoriano, per poi appartenere alla famiglia Bianconi e poi alla famiglia Iraci-Mandolini-Borgia. Tra queste due fasi non si può non considerare la sorte subìta dai territori romani dello Stato pontificio, in conseguenza del decreto di Napoleone I (17 maggio 1809) con l’annessione all’Impero, pretendendo di conseguenza obbedienza e totale consenso e dedizione; unico e supremo doveva essere l’imperatore e uniche e comuni dovevano essere le leggi e gli strumenti del governo, dell’amministrazione e della giustizia. Territorialmente l’Umbria napoleonica fu compresa nel dipartimento del Trasimeno, con capoluogo Spoleto, e suddivisa nei quattro circondari di Spoleto, Foligno, Perugia, Todi e in vari altri cantoni. Bettona faceva parte del cantone di Spello, circondario di Foligno e dipartimento del Trasimeno. Il 5 agosto 1809 fu introdotto il codice civile napoleonico e, tra le tante novità, furono costituiti gli archivi imperiali e venne ordinata la conservazione dei documenti con l’istituzione di una commissione che aveva il compito di provvedere a periodiche ispezioni. Fu prescritta la tutela del patrimonio forestale e fu ordinato il rilevamento dello stato delle strade, inoltre con decreto del 24 gennaio 1810 fu fatto divieto di seppellire i defunti nelle chiese, per ragioni igieniche, e furono soppressi gli enti religiosi; a Bettona toccò al convento delle Suore Benedettine di San Giacomo ed al convento di Sant’Onofrio. Bettona visse questo profondo cambiamento con tutte le difficoltà e i disagi propri di ogni altro piccolo comune dello Stato Pontificio. Il primo problema politico-giuridico affrontato fu quello di dover annullare le norme con le quali il Pontefice interdiceva, sotto pena di scomunica, l’accettazione degli uffici e la collaborazione con gli invasori napoleonici, a fronte dell’imposizione di Napoleone che voleva indurre il clero al giuramento di fedeltà all’imperatore. Il canonico don Pietro Onofri, parroco di Bettona, rifiutò di giurare e fu fatto arrestare il 13 giugno 1810. Con la caduta dell’Impero napoleonico e il ritorno alla dominazione pontificia, il governo ecclesiastico operò una riorganizzazione del territorio, uniformandolo alle novità introdotte dal sistema dipartimentale francese. La delegazione apostolica di Perugia venne suddivisa nei quattro distretti di Perugia, Città di Castello, Foligno, Todi, con Bettona inclusa in quello di Perugia, insieme a Bastia, Corciano, Marsciano, Deruta, Valfabbrica, Magione, Castione del Lago, Città della Pieve. Tornarono attive le congregazioni religiose e i rispettivi conventi, tuttavia un altro rivolgimento politico coinvolse Bettona: la nascita della Seconda Repubblica Romana (1849). Come già ai tempi dell’Impero napoleonico, vennero dichiarati di proprietà della Repubblica tutti i beni appartenenti allo Stato Romano. Nel periodo della Repubblica Romana non vi fu alcun cambiamento del personale politico amministrativo, ma solo un avvicendamento: così, tra coloro che continuarono ad esercitare le loro funzioni, quando, caduta la Repubblica nel luglio del 1849, verrà restaurato il governo pontificio, troviamo anche due componenti della famiglia Bianconi, che già dal 1818 era divenuta proprietaria della Villa Boccaglione, ovvero Florido Bianconi e Francesco Bianconi. Sappiamo anche che il commissario inviato dal Papa dispose la distruzione di ogni emblema della cessata Repubblica per riproporre gli stemmi e i vessilli del governo pontificio. Di questa procedura, molto probabilmente già adottata nei confronti degli stemmi e dei vessilli imposti dall’Imperatore, si ha testimonianza anche osservando le manomissioni di preesistenti stemmi collocati negli architravi delle porte interne alla Villa o riprodotti nelle decorazioni. Di alcuni di questi restano pochi indizi, mentre altri sembrano riadattati a “nuove disposizioni” e nuove ragioni politiche. Possiamo pertanto ipotizzare che la nostra Villa sia stata utilizzata, in quanto costituiva la residenza più prestigiosa presente sul territorio di Bettona, quale sede dei comandi delle truppe napoleoniche, successivamente spodestati dal costituirsi della Repubblica Romana. Approfondendo l’osservazione delle manomissioni agli stemmi e alcune delle loro riconfigurazioni, si può notare che ci sono ancora altre vicende politiche che hanno direttamente coinvolto la Villa. In particolare lo sconvolgimento della conquista piemontese, definito da Federico Santucci “evento questa volta grandioso e irreversibile, che aprirà per Bettona l’epoca civile e sociale veramente nuova dell’unità nazionale”. Sarà un membro della famiglia Bianconi, il priore Francesco, dietro ordine firmato dal Commissario straordinario della provincia dell’Umbria, Gioacchino Napoleone Pepoli, a disporre lo scioglimento del consiglio comunale. Ancora più tardi, nel ventennio fascista e durante la Seconda Guerra Mondiale, la villa dovrà sopportare e portare i segni, questa volta non soltanto per le manomissioni degli stemmi, ma soprattutto per i danneggiamenti causati alle strutture, al patrimonio ivi conservato ed agli arredi dei giardini, dal passaggio delle truppe tedesche che nella villa allestirono il loro quartiere generale e che, nelle fasi cruciali della ritirata, non usarono certo premure per quello che rappresentava un pregevole esempio dell’arte italiana.
PRIME IPOTESI ATTRIBUTIVE
Affrontando l’analisi del complesso della Villa Boccaglione nella prospettiva di delinearne una paternità progettuale, non si può prescindere dal considerare l’ambiente culturale e le tradizioni costruttive che caratterizzano il periodo temporale che ne vede la realizzazione, considerando anche la particolare collocazione geografica. Il territorio umbro, nel XVIII si trova coinvolto nella complessità politico – ammnistrativa dello Stato pontificio, la cui organizzazione, sebbene caratterizzata da un accentramento di carattere assolutistico, presenta un notevole frazionamento amministrativo, tanto da risultare una sorta di coacervo di legazioni, governi e presìdi dipendenti da Roma secondo rapporti diversi. Ad un panorama così variegato, tuttavia, non corrisponde una altrettanto accentuata differenziazione nella produzione architettonica e delle opere d’arte in genere, dato che in tutto lo Stato si trovano presenti ed interagenti, in maniera più o meno intensa, analoghe tendenze imposte dalla presenza di quegli architetti camerali che, inviati dal potere centrale – la Congregazione del Buon Governo – per occuparsi di lavori pubblici, operano in tutte le regioni dello Stato. I loro orientamenti sono di solito improntati a quelle essenzialità e funzionalità richieste dalla committenza pontificia impegnata, in un periodo di così grave dissesto finanziario della sua amministrazione, a contenere al massimo i costi. Si tratta in genere di personalità appartenenti alla corrente più moderata e accademica, ed anche quando sono architetti di tendenza neo-borrominiana, i loro edifici presentano assetti assai più composti di quelli espressi a Roma. E’ così che architetti come Carlo e Francesco Fontana, Giovanbattista Contini, Filippo Barigioni, Luigi Vanvitelli, Andrea Vici, Cosimo Morelli, Giovanni Antonio Antolini, Giuseppe Valadier, Carlo Murena sono presenti in regioni diverse come le Marche, la Romagna, l’Umbria, oltre naturalmente al Lazio. Se l’opera degli architetti camerali è dunque spesso caratterizzata dall’essenzialità nelle produzioni architettoniche legate ai servizi, un tono più ricco ed accattivante si può trovare nelle creazioni che rispondono a committenze private o ad ordini religiosi non legati, da un punto di vista finanziario, alla Congregazione del Buon Governo. Alle loro opere, che esprimono gli orientamenti della capitale, si affiancano quelle dei costruttori e degli artigiani locali, i quali, pur nella semplicità degli schemi adottati, spesso si concedono soluzioni di sapore barocchetto, magari limitate alle cornici di porte e finestre o ad altri dettagli decorativi. Le volute sinuose della rocaille esploderanno, come si vedrà, per merito di abilissimi plasticatori negli altari o negli ambienti di rappresentanza di tanti palazzi nobiliari. E’ opportuno ricordare come per tutto il Settecento, le realizzazioni architettoniche dell’attuale territorio regionale, non subiscono l’influsso delle importanti esperienze barocche, maturate nel secolo precedente, ma sono ancora, più o meno, condizionate dai modelli dell’età della Controriforma. Per questi motivi, l’aspetto tipico dell’architettura dello Stato pontificio è solitamente l’esaltazione dei valori massivi della parete ed una composizione architettonica che procede per addizioni di cellule spaziali differenziate. Per questo periodo, è interessante considerare che uno dei temi più affascinanti e ricchi della produzione architettonica dei centri dello Stato pontificio sia quello relativo ai teatri. Dalle suggestioni teatrali e dalla competenza acquisita nei campi affini della scenografia e della scenotecnica, molti architetti daranno vita, di contro a fastosi ambienti di connotazione privata, a nuovi spazi pubblici, ossia luoghi destinati al complesso cerimoniale di nobili famiglie. Tutto ciò in conformità con quanto, da questo momento in avanti, verrà prodotto in campo scenografico dove gli “atrii magnifici”, e alle “scale regie”, gradualmente si contrapporranno ballatoi e palchetti, seppure ancora fortemente connotati da ridondanti elementi decorativi. Queste ispirazioni saranno così pressanti da estendersi agli spazi esterni e ai giardini che diverranno essi stessi dei teatri, dei fondali, delle magnifiche quinte per affascinati ed effimere scenografie. Accadrà così che, in un’epoca e in un ambito geografico in cui i prospetti di ville e palazzi sono eretti nella più disadorna sobrietà, vengano di contro riservate all’interno degli edifici, le decorazioni di cui sono privati i fronti. Si può affermare che la Villa bettonese ne costituisce un importante esempio, infatti alla sobrietà degli esterni fanno da contrappunto i suggestivi ambienti interni arricchiti da splendide decorazioni, da stucchi e specchi, ma anche lanterne e originali scale coclidi; altrettanto può dirsi per i giardini strutturati come luoghi di delizie e fondali per originali allestimenti teatrali. L’influenza della cultura romana condizionerà anche l’architettura nobiliare e religiosa. Fra le numerosissime dimore patrizie in Umbria si impone per originalità e grandiosità Palazzo Gallenga Stuart, costruito tra il 1748 e il 1758) da Pietro Carattoli, che si tramanda abbia seguito liberamente un progetto dell’architetto romano Francesco Bianchi con un esito sontuoso accostabile a quello del piemontese Benedetto Alfieri. Meritano inoltre di essere ricordate sia la grandiosa residenza dei Collicola a Spoleto (1717-1730) progettata dal Cipriani, sia quella tarda della famiglia Candiotti a Foligno: un edificio che al suo interno presenta, pur in età neoclassica, spettacolari quadrature. Accanto alle residenze nobiliari si annoverano alcune significative chiese, quali quella dedicata a San Matteo a Cannara (1784-1795) del luganese Giovan Battista Curoncini: riprova ulteriore della uniformità del linguaggio architettonico del centro Italia. Tuttavia è nell’Oratorio del Gonfalone di Foligno che architettura e decorazione raggiungono un preciso equilibrio all’insegna di una squisita grazia rococò; i documenti ricordano che nel 1747 lo stuccatore Gioacchino Grampini intervenne nella Cappella dell’altare maggiore su disegno del Carattoli. La pianta ad ovale allungato si afferma anche, sempre a Foligno, in Santa Maria di Betlem, ulteriore prova del pregio degli interventi tardo barocchi. Con il rifacimento della chiesa di San Salvatore, la ricostruzione del duomo e l’edificazione della SS. Annunziata (Carlo Murena), iniziata nel 1760 e della chiesa di San Francesco è di scena invece, più o meno mediato, il linguaggio di Vanvitelli che, come è stato osservato, per raggiungere Ancona e Loreto (Santuario della Madonna di Loreto) sovente transitava per Foligno. Ampissima e celebre è l’attività del Vanvitelli per la committenza religiosa e privata, ma ciò che qui interessa considerare è l’incidenza della stessa sugli artisti locali. Molteplici sono gli interventi dell’architetto, soprattutto quelli condotti nelle Marche, sia opere importanti sia altre minori, ma comunque tali da lasciare un segno significativo nella storia delle produzioni architettoniche del tempo. A garanzia di un’ottima esecuzione dei propri progetti, il Vanvitelli li affidò spesso a fedeli collaboratori. E’ il caso, tra i tanti, della Chiesa della Maddalena a Pesaro costruita da Ant+onio Rinaldi. Il bellissimo interno a pianta accentrata presenta un catino solcato da coppie potenti di nervature; più grafica l’analoga soluzione proposta nella chiesa degli Olivetani a Perugia, dove il momento più rilevante è la presenza, nella zona presbiteriale, di un diaframma di colonne secondo la nota scenografica soluzione del Palladio, (ripresa anche da Nicola Salvi). Andrea Vici, diretto allievo del Vanvitelli, nell’interno della cattedrale di Treia ne riproporrà una variante assai significativa, ma dalla chiesa perugina il Vici trarrà molteplici suggerimenti anche nelle organizzazioni planimetriche, come si evince dal San Francesco di Foligno. A Perugia il Vanvitelli, oltre alla chiesa, costruì per gli Olivetani il grandioso convento, dove il doppio sistema di illuminazione in senso verticale degli alti corridoi anticipa quella sensibile ricerca di differenziate fonti luminose che diverrà più tardi la caratteristica del convento degli Agostiniani a Roma. A Foligno, si deve a lui l’avvio della ricostruzione del Duomo, continuato dal Piermarini. Questi sono gli anni nei quali si andrà sempre più affermando l’opera di artisti locali la cui formazione, sempre più colta e meno artigianale, avviene peraltro a Roma. Tra questi, oltre allo stesso Giuseppe Piermarini, folignate, e ad Andrea Vici, sono da ricordare Carlo Marchionni, Cosimo Morelli, Giuseppe Pistocchi, Giovanni Antolini. Si tratta essenzialmente di artisti locali che operano sulla base delle loro esperienze da loro maturate nella realizzazione diretta di opere di livello nazionale e internazionale o nell’affiancamento ai grandi maestri dell’architettura barocca e neoclassica. A questo punto, è necessario un tentativo di inquadramento di alcune specificità della villa del Boccaglione, sullo sfondo del panorama culturale e delle realizzazioni architettoniche regionali, con il prioritario obbiettivo di avanzare alcune ipotesi attributive della realizzazione. E’ ormai consuetudine indicare come possibili architetti sia Antonio Stefanucci, sia Giuseppe Vanvitelli, entrambi allievi di Vanvitelli. Le ipotesi si basano essenzialmente sull’analisi stilistica delle produzioni dei due architetti, comparata con quella della Villa Boccaglione e con i loro legami territoriali nel bettonese e più in generale in Umbria. Sicuramente entrambi, con le loro realizzazioni, si pongono in piena coerenza con quegli influssi della cultura romana che si andavano rivelando nei numerosi esempi umbri di architettura nobiliare e religiosa, già sopra richiamati. Antonio Stefanucci, architetto e scultore romano, è attivo nella città di Bettona negli anni 1795 – 1797 per la ristrutturazione della Chiesa dedicata al patrono locale San Crispolto; si forma a Roma nell’Accademia di San Luca e qui raggiunse la gratificazione di un premio per il concorso Clementino del 1758, per la prova di scultura: risulterà essere al secondo posto della prima classe. L’artista doveva essere tra i migliori allievi dell’Accademia romana tanto che, dopo questo primo riconoscimento, nel 1762 riceve il secondo premio per la scultura della prima classe. A partire dagli anni Ottanta del Settecento, Stefanucci si stabilirà definitivamente a Perugia e lo si ritroverà attivo in diverse commissioni per le più importanti chiese del capoluogo, dove darà espressione alle sue specifiche competenze nella produzione di altari: si deve a lui la realizzazione dell’altare maggiore per il San Francesco al Prato (1781). La Chiesa di San Francesco al Prato, nella sua integrità settecentesca, vantava importanti cappelle di nobili famiglie perugine e tra queste quella della famiglia Della Penna che la acquisisce in proprietà dalla estinta famiglia dei Crispolti. Così come annotato dal Siepi, che tuttavia non ne indica l’artista ideatore, tantomeno ne fornisce una descrizione, mentre espone una minuziosa illustrazione dell’altare, contribuendo in tal senso al consolidarsi della notorietà all’artista romano che presto sarà impegnato per la progettazione di un altro altare per la chiesa di San Fortunato nel 1796. Nell’ambito della produzione architettonica, si deve a Stefanucci l’ideazione della chiesa di San Bartolomeo di Torgiano: essa presenta forme in affinità con l’arte vanvitelliana e piermariniana, particolarmente evidenti all’esterno. La facciata di certa paternità di Stefanucci è realizzata in laterizio con chiari riferimenti alla facciata della chiesa del Convento degli Olivetani di Perugia, che impegnò l’architetto Vanvitelli dal 1739 al 1741 e fu terminata nel 1762. Entrambe le facciate presentano delle nicchie, poste lateralmente al portale d’ingresso e sono realizzate in cotto con superfici movimentate da quadrature in rilievo. Analogie stilistiche con la facciata della chiesa di Torgiano sono rintracciabili nella facciata della Villa di Passaggio di Bettona: l’originale soluzione delle piccole pareti concave con nicchie collocate come raccordo ai due piani in dislivello della facciata, insieme all’espediente decorativo delle volute baroccheggianti formate dai marcapiani aggettanti, richiamano l’elemento del frontone curvilineo che sovrasta il portale della chiesa torgianese, anche se l’aspetto della facciata della villa del Boccaglione risulta più raffinato nel suo insieme, qui l’intonaco tinteggiato addolcisce molto la struttura che appare meno rozza e imponente rispetto alla facciata della chiesa torgianese. L’intera superficie esterna della Villa presenta una notevole leggerezza del disegno compositivo, raggiunta grazie al rilievo contenuto di ogni suo elemento decorativo. Qui sono presenti autentiche inflessioni del linguaggio architettonico romano del Seicento, che solo un artista d’origine romana o che ebbe modo di addentrarsi nell’ambiente artistico romano, avrebbe potuto realizzare. Tra questi è significativa la soluzione del marcapiano nel piano attico della facciata della Villa che chiaramente rimanda a riferimenti romani di alto livello, creando una soluzione che contrasta l’orizzontalità dei prospetti, alleggerendone la composizione e innalzandola per conferire maggiore imponenza. E’ accertata chiaramente l’attività di Stefanucci a Perugia per il periodo compreso tra il 1781 ed il 1796: si può ipotizzare, quindi, che l’architetto avesse avuto opportunità di operare anche presso il cantiere della villa di Bettona. E’ noto anche che, nel capoluogo umbro, Stefanucci partecipa a realizzazioni commissionate dalle più abbienti famiglie della città ed è ipotizzabile che proprio in tali ambiti abbia avuto l’occasione di entrare in contatto con la nobile famiglia dei Crispolti, già proprietari di una estesa tenuta agricola posta nella piana di Bettona, e che ben poteva aspirare ad evidenziare l’agiatezza raggiunta attraverso la costruzione di una raffinata dimora da contrapporre ai lussuosi palazzi di altre nobili famiglie del capoluogo. Una seconda ipotesi prende in considerazione la presenza a Bettona dell’architetto folignate Giuseppe Piermarini (1734 – 1808). La personalità del Piermarini, di cui si conoscono numerosi studi biografici, è stata più volte rapportata alla progettazione della villa del Boccaglione. Una tra le primissime fonti più autorevoli a tal riguardo è la voce del Tarchi, che nel suo L’arte del Rinascimento nell’Umbria e nella Sabina (1942), considera con certezza l’architettura della Villa bettonese di mano del Piermarini e ne propone delle fotografie dell’epoca che oggi rappresentano la testimonianza storica dell’antica bellezza, quando ancora era ancora abitata e quindi viva in tutti i suoi valori. Gianni Mezzanotte include nel suo studio sull’opera del Piermarini l’immagine della Villa lasciandone intendere l’affinità stilistica con il gusto dell’architetto folignate. Nella più recente pubblicazione del catalogo della mostra tenuta a Foligno nel 1983 dal titolo, Piermarini e il suo tempo, la Villa Boccaglione è segnalata come opera neoclassicheggiante di paternità piermariniana. Ricorre spesso, inoltre, il confronto stilistico con le numerose realizzazioni piermariniane ed in particolare con la Villa Reale di Monza, per analogie nell’impianto architettonico e dei giardini, sia pure considerando il divario dimensionale. Giuseppe Piermarini iniziò la sua formazione culturale nel liceo della città natia: Foligno, dove, fin da molto giovane, venne ammirato per l’abilità in geometria e nelle scienze meccaniche. Per affinare le sue doti artistiche gli fu concesso di partire per Roma per frequentare la scuola di Luigi Vanvitelli e proprio a Roma, nella metà del Settecento, conobbe le personalità di Paolo Posi e di Carlo Murena: dai due architetti apprese le tendenze classicistiche che si respiravano nell’ambiente romano, mentre con l’illustre maestro nacque anche una grande amicizia sostenuta da una indubbia affinità, tanto che Piermarini fu tra i più vicini collaboratori nel cantiere della reggia di Caserta. Nel 1768 il nostro da Caserta ritornò a Foligno, forse per l’anniversario della morte del padre. Nel 1769 fu di nuovo impegnato con Vanvitelli nella realizzazione dell’antico Palazzo visconteo a Milano e nello stesso anno i due architetti furono insieme in Umbria, proprio a Foligno, per occuparsi del Duomo. A Milano, Piermarini realizzò il Palazzo Belgioioso: la dimora milanese esprime uno stile neoclassico, ma disegnativo e poetico, capace di dare vivacità ad una facciata molto lunga strutturata con pochi elementi. Un’analoga soluzione viene adottata per il disegno delle facciate esterne della Villa Boccaglione, in cui i rimandi alla sua arte sono chiaramente rintracciabili nella lavorazione chiaroscurale delle superfici, raggiunta con una contenuta e raffinata plasticità. In occasione dei suoi ritorni a Foligno, Piermarini potè facilmente avere contatti con un’importante famiglia del territorio come i Crispolti ed è altrettanto possibile che, pur considerando la non esclusività dell’incarico, egli sia stato comunque coinvolto, anche se con discontinuità, nel cantiere della Villa, uno dei più importanti cantieri umbri di quegli anni. Sappiamo infatti che il nostro, mentre lavorava al cantiere di Caserta, tornò di nuovo a Foligno nel 1772 per terminare la ristrutturazione del transetto del Duomo di San Feliciano. La sua presenza nel territorio umbro è successivamente attestata dal 1789 sino al 1808, periodo in cui si occupò della sistemazione della chiesa di Collepino di Spello dedicata a San Silvestro Papa e del progetto della Cappella del Sacramento (1793) in cui adotto un chiaro linguaggio vanvitelliano. Si possono pertanto affermare i continui contatti con la sua terra d’origine anche durante la sua carriera lavorativa e la lunga permanenza milanese. Inoltre, come puntualmente ricondotto da Sartore, esiste un curioso fil rouge che collega Giuseppe Crispolti a Giuseppe Piermarini proprio in quegli anni: entrato a far parte dell’arcadica Accademia Fulginia nel 1774, conobbe Claudio Seracchi, importante commerciante folignate che aveva come soci in affari i fratelli Piermarini. D’altra parte, in assenza di fonti precise, non si può neanche escludere la possibilità di avvicendarsi tra più figure all’interno di importanti cantieri storici, dove architetti di primo piano sono spesso autori o revisori dell’idea progettuale iniziale, o anche solo di uno schizzo ideativo di primigenia fascinazione, mentre il cantiere è demandato, e di fatto condotto, da figure locali, come ad esempio poteva essere Antonio Stefanucci, in quegli anni architetto generale della città di Perugia.
LA VILLA NEL PANORAMA CULTURALE DEI SECOLI XVII E XVIII
Richiamando quanto già esposto in merito alla discussione tra la possibile presenza attiva di Piermarini nel corso delle principali fasi di realizzazione della Villa (sia nell’ambiente culturale del tempo) e l’attribuzione invece ad Antonio Stefanucci, possiamo tentare ulteriori approfondimenti ed aggiungere elementi nuovi alle ipotesi attributive già delineate, sempre adottando il metodo della comparazione con altre importanti realizzazioni architettoniche coeve e afferenti la cerchia dell’architetto folignate. Si ritiene che l’apprezzamento della Villa non possa prescindere da una attenta considerazione del percorso formativo intrapreso da Permarini, che costruì il proprio modus operandi sull’esperienza maturata grazie ad importanti collaborazioni con insigni architetti e sempre condotta in ambienti culturali di rilievo nazionale e internazionale. In modo particolare occorre esaminare la grande tradizione dell’ambiente romano del tardo barocco ed i suoi grandi maestri, per comprendere appieno l’avanzare e il successivo affermarsi del Neoclassico, interpretato in seguito in maniera estremamente originale da Piermarini. Nell’ambito della prestigiosa tradizione del Barocco romano, l’ultimo dei grandi maestri fu Carlo Rainaldi, deceduto nel 1691, dopo aver realizzato con la chiesa di Santa Maria in Campitelli, divenuto uno dei paradigmi di riferimento dei tanti maestri settecenteschi del tardo barocco. Tra le personalità affermatesi, nell’ambito della produzione artistica di questo periodo, sia in campo operativo, sia didattico, attraverso l’opera di formazione degli artisti nati attorno agli anni Ottanta, (vale a dire coloro che inizieranno ad operare nei primi anni del nuovo secolo), è opportuno ricordare Giovanni Giacomo De Rossi (Roma 1616-1695). Prosecutore dei lavori alla morte del Borromini, nel cantiere di Propaganda Fide, De Rossi unisce vocaboli borrominiani ad un classicismo di derivazione berniniana. Il processo di alleggerimento divenuto poi obbiettivo della ricerca settecentesca, messo in atto nella Cappella Lancellotti in San Giovanni Laterano, ne fanno una personalità molto seguita; in quest’opera le eleganti ed ornate costolonature che graficamente danno continuità nella volta agli elementi portanti, sono un motivo a cui si rifaranno tanti architetti da Luigi Vanvitelli a Cosimo Morelli. Nel Palazzo e Villa Altieri, egli si esercita nella ricerca di scale sempre più aperte e luminose: qui realizza una scala “a tenaglia”, secondo una conformazione analoga alla scalinata di Villa Boccaglione. Elemento caratterizzante il prospetto di Villa Altieri, considerata dai contemporanei una delle più belle e stravaganti forme barocche, è certamente la scala con un’apertura centrale di passaggio per l’accesso diretto alla zona posteriore dei giardini, esattamente come nella Villa di Passaggio di Bettona. In entrambe le ville, al grande cortile di ingresso, recintato con aiuole a schema geometrico si giunge attraverso un ampio viale che si conclude, nella Villa Altieri con due imponenti obelischi collocati su due piedistalli mentre nella Villa bettonese, due analoghi obelischi segnano il monumentale accesso posteriore. La Villa dei Crispolti sembra ripetere le orme non soltanto della Villa sul Gianicolo della famiglia Altieri, ma anche il prospetto del palazzo progettato dallo stesso De Rossi, sempre appartenente alla famiglia Altieri in piazza del Gesù nel cuore di Roma. La facciata di quest’ultimo divisa su tre piani, presenta un ritmo alternato dei timpani delle aperture: nel primo piano trapezoidali, poi curvilinei e triangolari nel piano attico ed una delicata suddivisione di paraste marcapiano e bugnato liscio nelle angolature. La scala a tenaglia, che, come si è detto, costituisce un elemento fortemente caratterizzante il prospetto principale della Villa Boccaglione, ha un’altra rappresentazione nell’incisione all’acquaforte di Giuseppe Vasi raffigurante le Scuderie del Quirinale (1739). La costruzione delle Scuderie fu interrotta alla morte di Innocenzo XIII nel 1724 e ripresa solo da Clemente XII nel 1730. Dopo la morte di Alessandro Specchi, l’edificio fu completato entro il 1732 da Ferdinando Fuga. Nel sesto decennio del Settecento la figura più significativa di costruttore è quella di Luigi Vanvitelli (1700-1773) che, di ritorno dalle Marche, si inserisce brillantemente nella scena romana. La sua impresa tecnica più significativa e capace di imporre nella capitale il linguaggio del maestro, è il Convento degli Agostiniani. Valori potentemente massivi sono esibiti all’esterno del convento, dove le smussature angolari e lo zoccolo a bugnato liscio, vengono introdotti per conferire alla fabbrica una potente firmitas: si tratta di una grandiosità volutamente polemica nei riguardi della ricerca di lievità antistrutturale degli artisti della generazione precedente. Il tema del bugnato liscio, utilizzato per sottolineare il piano terra, è riproposto nella Villa bettonese e ne costituisce una caratterizzazione evidente e significativa dei prospetti. Restando sempre nell’ambito dell’attività architettonica a Roma, osserviamo che, morto il Salvi e non più attivamente presenti il Fuga e il Vanvitelli, in quanto entrambi impegnati a Napoli, all’inizio della seconda metà del secolo l’impresa più significativa è la costruzione della villa per il Cardinale Alessandro Albani, alla cui progettazione, Carlo Marchionni (1702-1786), anconetano d’origine, ma di formazione romana, cominciò a dedicarsi dal 1747, anche se l’effettiva costruzione si svolse dal 1756 al 1763. Villa Albani non si connota come una vera e propria residenza suburbana, infatti pochissimo spazio è riservato alle esigenze del vivere, ma risulta piuttosto conformata per ospitare personalità e artisti che qui trovano luogo ideale per dedicarsi a piacevoli passeggiate, conversazioni e brevi intrattenimenti mondani. E’ in realtà il più straordinario esempio di museo privato, elitario e aristocratico, dove tutto si adegua, compreso il giardino, alle esigenze della raccolta distribuita lungo calcolatissimi percorsi: le statue degli eroi e degli imperatori nel Casino, quelle dei poeti e dei filosofi nelle ali che lo fiancheggiano, le divinità dell’Olimpo nell’Esedra. Villa Albani viene da molti considerata come la precoce manifestazione dell’arte neoclassica, tuttavia, osservando il “neocinquecentismo” ridondante del grande edificio ed il suo decorativismo di matrice ancora barocca, si è consapevoli della lontananza dagli esiti di “nobile semplicità e calma grandezza”, sostenuti da Winckelmann. Se di Neoclassicismo si può parlare, occorre ricercarlo negli esiti delle suggestioni culturali che possono essere derivanti dalle conversazioni e dissertazioni dotte che si intrecciano tra il cardinale, lo studioso tedesco e Raffaello Menges, autore del celebre Parnaso affrescato nella volta di una sala. Tra il 1755 e il 1765, negli architetti giunti a Roma e qui operanti, è evidente l’inclinazione al recupero dell’antico e del Rinascimento che ben si concilia con le inclinazioni dell’Arcadia e dell’Accademia di San Luca. Il progetto di Carlo Marchionni per l’esedra della villa sulla Salaria è definito “un esempio di come possano sempre avverarsi sorprese inaspettate, forzando anche i preconcetti più radicati. Il portico sul giardino si offre quasi come un’apparizione in sogno, accentuando drammaticamente lo scoscendimento del terreno […]. L’edificio si erge lontano e irraggiungibile sull’orlo di una sorta di precipizio, in una drammatica contrapposizione sublime. L’immagine si sostituisce al progetto e, come in un dipinto, l’architettura appare in lontananza, in una visione trasognata, producendo con la sua suggestione, affetti, sentimenti, passioni”. Il barocco non è certo dimenticato in questo cantiere-guida che è, al tempo stesso museo, palazzo e giardino nel paesaggio. Il riferimento alla produzione di Carlo Marchionni, per gli Albani è, inoltre, particolarmente importante per comprendere appieno anche la ricca produzione marchigiana, napoletana e umbra, sia di Piermarini che di Vici, contrassegnata già in questa ultima fase del tardo Barocco da una evidente mescolanza con elementi del nascente Neoclassico, nonostante le differenze tra i due architetti, derivanti dal loro diverso percorso professionale. Piermarini, architetto arciducale preposto ai compiti altamente rappresentativi, che simboleggiano una soluzione politica nella quale alla nobiltà si affiancano “la corte e lo Stato, nelle persone dei sovrani, dei loro ministri e dei vari uffici”; l’altro, il Vici, dedito essenzialmente ad una ricerca più individuale e meno condizionata; sarà proprio per questo che una volta giunto a Roma e insignito della potestà accademica, diverrà l’interprete più valido del lento e graduale passaggio dal barocco al neoclassico. Come Marchionni anche Giuseppe Piermarini e Andrea Vici si allineano ai canoni di una architettura elegante e armoniosa che già sembra caratterizzare le produzioni degli ultimi anni del Seicento, in parte già orientate verso inclinazioni più libere e soggettive. Volendo individuare ulteriori contatti di Giuseppe Piermarini con il maggiore artista del Settecento romano e con la sua opera di portata internazionale, è bene considerare che la preparazione degli architetti non era limitata al solo ambito edilizio ma si imperniava significativamente su un continuo esercizio di disegno a lungo praticato negli studi dei pittori e ciò si riscontra nel Vici, formatosi a Perugia presso Francesco Appiani e aroma presso Stefano Pozzi. In questo primo periodo e proprio presso Appiani, Piermarini ebbe modo di incontrare Giacomo Quarenghi e Vincenzo Brenna che lo esortarono a coltivare lo studio dell’architettura, compiendo il primo apprendistato presso il senese Paolo Posi. A questo punto, ricostruendo l’esperienza di Giuseppe Piermarini, è interessante considerare come Pozzi e Posi avessero entrambi collaborato, circa vent’anni prima, al restauro della tribuna del Duomo di Napoli e si trovassero, tra il 1758 e il 1761, di nuovo a lavorare insieme per i Colonna. Proprio nel cantiere di palazzo Colonna ai SS. Apostoli, l’architetto folignate giunse tra il novembre 1760 e l’ottobre 1761. L’approccio alla realizzazione architettonica di Posi, che rifletteva quello di Carlo Fontana, prevedeva la rielaborazione personale dei progetti del maestro. Seguendo tale esempio metodologico, egli ridisegnò a sua volta i progetti dell’architetto senese per il fonte del palazzo con affaccio sulla grande corte detta la “cavallerizza”, risolto seguendo uno schema neocinquecentesco con tre grandi arcate su lesene giganti. Rispetto a questa prima soluzione, il folignate inserì alcune varianti: l’apposizione di paraste binate su piedistallo alle due estremità e la terminazione ad attico balaustrato con statue che sormontano il mezzanino, tipiche soluzioni michelangiolesco-berniniane rivisitate, per esempio da Ferdinando Fuga in palazzo Petroni. In questa trattazione è utile ricordare che nel progettare il palazzo per i Colonna, Posi ideò anche il giardino scenografico con previsioni di parterres erbosi e inserimento di strutture architettoniche, esedre, fontane, scalee, terrazzamenti, finte rovine. Si può quindi affermare che Piermarini consolidò in questo periodo le sue competenze di apparecchiature effimere e di decoratore di giardini presenti nelle sue opere più tarde, dove sarà evidente il rapporto tra architettura e decorazione. Dopo questa fase, Giuseppe Piermarini operò nel cantiere vanvitelliano diretto da Carlo Murena, insieme a Vici, Virginio Bracci, e Girolamo Toma. Sulla loro esperienza, come sarà anche per Carlo Vanvitelli, si trasferiranno in questo periodo le suggestioni della bottega mureniana caratterizzate da forti inclinazioni accademiche e teoriche. Proprio tale vicenda porterà i quattro architetti ad iniziare un vero e proprio trattato rimasto incompiuto e a spingerli a conservare tra le proprie carte e disegni, insieme ad opere del repertorio classico del barocco, anche opere dei contemporanei e dei nuovi maestri che, attraverso Filippo Juvarra e Carlo Fontana, si rifacevano ai grandi temi del repertorio settecentesco. Si andrà così delineando un’architettura non propriamente ideologica, ma piuttosto derivante da maestri dalle forti attitudini tecnico-matematiche e “ingegneristiche” come appunto Piermarini e Vici, destinati ad incrociare i loro destini anche oltre i confini di Roma. Da ciò deriva la loro attitudine a spaziare dalle suggestioni di un recente passato, rivisitato con occhi diversi, ad un recupero delle suggestioni dell’antico “rivitalizzato” tuttavia da una rigorosa innovazione. Piermarini nella sua stagione milanese, iniziata nel 1769, in sintonia con la ristretta élite letteraria lombarda, indirizzerà quindi la sua formazione e le sue esperienze verso nuove soluzioni architettoniche moderate. A questo punto è importante verificare quale fosse l’ambiente culturale milanese con il quale l’architetto folignate si trovò a dialogare: tra le personalità di maggiore spicco che segnarono con la loro opera l’ambiente milanese, si deve annoverare il romano Giovanni Ruggeri, già allievo di Carlo Fontana. Ruggeri morì nel 1745, tuttavia all’arrivo di Piermarini a Milano, erano ancora forti gli influssi delle sue produzioni. E’ possibile affermare che, stante l’importanza della vicenda politica e culturale lombarda del passaggio, nel 1707, durante la guerra di successione spagnola, dello Stato di Milano al dominio degli Asburgo d’Austria, sono proprio questi gli anni in cui si avvia la vocazione continentale della città e si deve anche aggiungere che, in campo architettonico, e soprattutto nell’opera del Ruggeri, se ne avvertono le positive conseguenze e già le sue prime opere assumeranno immediatamente il valore di modelli. Il settore dove maggiormente Ruggeri dispiegò le sue doti di scenografo e regista di monumentali complessi è indubbiamente quello dell’architettura delle ville. Fra i numerosi interventi a lui attribuiti, il primo in ordine cronologico è il rimodernamento del Castello Visconti a Brignano d’Adda, del 1710 circa, dove l’architetto riesce a rendere unitario un insieme complesso di nuclei preesistenti attraverso la realizzazione di un avancorpo ad anfiteatro di perimetro mistilineo. E’ probabile che sia stata attuata la sostituzione di un fianco dell’antico castello con un porticato a colonne binate a sostegno della terrazza pensile collegata agli altri lati del cortile: un’affascinante gioco di trasparenze e di vuoti contrapposti a i pieni, in grado di enfatizzare lo schema ad “U” dell’edificio principale. Tra le tante residenze possiamo citare la bella Villa Belgioioso presso Merate, edificio rimodernato da Giacomo Muttoni: una villa, questa, che dimostra l’incidenza di Ruggeri soprattutto nell’elemento ornamentale più che nella disposizione planivolumetrica, che qui è estremamente elementare e compatta. Completa il fascino del complesso il bellissimo parco, parzialmente conservato nella sua scenografica organizzazione rococò. Per la capacità di orchestrare vaste corti d’onore, grandi spazi a giardino efficacemente collegati in studiate prospettive al corpo di fabbrica principale, al Ruggeri certamente deve essere riconosciuto un ruolo primario nell’ambito dell’edilizia di villa che, come noto nel XVIII secolo in Italia fu settore così ricco di realizzazioni. Insieme al tema delle ville si porrà presto il problema della realizzazione di sedi più rappresentative per Ferdinando d’Austria, reggente per la Lombardia per conto di Maria Teresa. Proprio in questo campo si delineerà l’attività di Giuseppe Piermarini e tra le tante opere realizzate emerge la ricostruzione del Palazzo Regio Ducale. Del progetto, in un primo tempo, venne incaricato nel 1769 Luigi Vanvitelli la cui fama era già consacrata dal successo internazionale della Reggia di Caserta. Per far fronte a questo incarico, Luigi Vanvitelli condusse con sé i due allievi più maturi, Carlo Vanvitelli e Giuseppe Piermarini. Il maestro approntò un progetto molto ambizioso proponendo un edificio del tutto nuovo: una struttura probabilmente a due cortili, consona ai gusti austriaci, rifinita frontalmente da un alto basamento con bugnato a fasce orizzontali, piano nobile scandito da paraste doriche di ordine gigante con trabeazione continua e piano attico sormontato da statue in corrispondenza dei due portali di accesso. Gli stimati esorbitanti costi e le conseguenti difficoltà sorte con la committenza, portarono Vanvitelli a declinare l’incarico e a suggerire quale suo sostituto, il nome dell’allievo Giuseppe Piermarini (1734-1808) che immediatamente si attivò per apportare al progetto le necessarie modifiche, pur dovendone necessariamente ridurre i costi, dalla sua realizzazione ne risultasse una dimora appropriata ad ospitare l’arciduca. Il monumentalismo vanvitelliano cedette quindi il posto alla moderazione, all’equilibrio e al funzionalismo di Piermarini che, attraverso un continuo raffronto con l’architetto Nicola Picassi, riesce a condurre positivamente l’incarico. A seguito di questa vicenda, le strade dei tre architetti, si separano: Luigi e Carlo Vanvitelli ritornano a Napoli per completare gli interventi avviati ed iniziarne dei nuovi, mentre Piermarini, dopo isolate esperienze di collaborazione grafica e progettuale con Luigi (come quella della sistemazione di Porta Orientale, dove riprende l’idea vanvitelliana di esedra concava), consoliderà la sua personalità, finalmente del tutto autonoma e svincolata dalla subordinazione “ideologica” nei confronti del maestro. Una vocazione per le scienze matematiche, una personale capacità critica e altrettanto personale adesione alle teorie razionaliste e una profonda coscienza professionale sono, tra le molte doti, quelle che maggiormente consentirono al Piermarini di divenire il riferimento dell’architettura lombarda, per più di trent’anni. Architetto arciducale e camerale, a lui spetta la progettazione e il controllo generale di tutte le fabbriche dello Stato. A ciò si aggiunge sia il ruolo preminente nell’ambito dell’Accademia delle Belle Arti, istituita nel 1776, con la conseguente possibilità di adoperarsi nel formare più generazioni di operatori, sia la posizione predominante in quella Commissione d’Ornato cui era demandato il controllo dello sviluppo edilizio ed urbanistico di Milano. Nella Villa Arciducale di Monza enuncia in maniera esplicita la sua posizione culturale in materia di linguaggio formale. Infatti, se lo schema planimetrico ad “U” può essere interpretato come un omaggio alla tradizione locale, precedentemente accennato, è altrettanto evidente che in questa composizione nulla è concesso al gusto scenografico del tardo barocco: non c’è alcuna esasperazione spaziale né compenetrazione dei volumi, piuttosto i vari corpi della fabbrica tendono a rendersi autonomi e giustapporsi superando la composizione gerarchica. Il nucleo centrale risulta parte del contesto, mentre le ali avanzano ponendosi quasi al suo stesso livello; una certa dissonanza compositiva si riscontra nella collocazione della Cappella e della Cavallerizza, come nella soluzione delle scale, colleganti le sale al giardino. Quest’ultime, piuttosto che agevolare sembrano ostacolare l’integrarsi della fabbrica con l’ambiente naturale circostante. In tal senso, pare delinearsi la tendenza alla netta separazione del parco dalla fabbrica: la villa, nella sua aulica collocazione, eretta su marcati basamenti e meno traforata da ampie finestre e loggiati, apparirà sempre più emergente rispetto al suo contesto. Solo più tardi le residenze di campagna si doteranno di parchi secondo la moda inglese, dove scenografie di finte rovine, castelli medioevali, capanne rustiche daranno vita a percorsi pittoreschi e romantici in cui le citazioni della storia passata, le suggestioni dei miti si fonderanno con la natura. Anche nella villa del Boccaglione ne abbiamo un chiaro esempio: qui il boschetto retrostante, strutturato come un piccolo parco all’inglese, presenta ancora due obelischi, statue di divinità pagane, tracce dei basamenti che sorreggevano i busti di imperatori e di personaggi illustri del passato, ma anche due torrette di foggia medioevale ai fianchi del grande terrazzo del prospetto retrostante. Il confronto tra questa Villa e la Villa Reale di Monza evidenzia altre affinità rintracciabili nelle soluzioni decorative. Gli elementi decorativi interni della Villa del Boccaglione, seppure di minore rilevanza estetica, si presentano affini a quelli della villa monzese. In entrambe si ripetono i motivi rocaille dipinti nelle fasce alle pareti o presenti negli stucchi dei camini. Ad esempio, nel camino del salone degli specchi della Villa umbra compaiono frammenti di pigmento dorato, utilizzato molto spesso nella villa di Monza ed ancora, se raffrontiamo le soluzioni di dettaglio decorativo delle mostre dei camini, risulteranno evidenti le affinità stilistiche. La decorazione parietale delle due ville è affidata agli stessi espedienti formali antichi: le grottesche, derivanti dalla Domus Aurea neroniana, realizzate in stucco nella Villa Reale sono recuperate in una versione più umile nella Villa umbra, sotto forma di finti stucchi realizzati in pittura. Le due ville attingono ad uno stesso repertorio iconografico capace di colpire l’osservatore per eleganza e ricchezza: i loro interni si animano di figure antropomorfe, finti panneggi, volute vegetali e fiori, in cui confluiscono forme classiche barocche e rococò.
Un tema originale: i giardini e gli allestimenti effimeri – Piermarini, seppure svolga la sua attività spesso in ruolo subordinato ai maestri, in particolare a Luigi Vanvitelli, ha tuttavia acquisito una significativa esperienza lavorando assiduamente agli studi, ai progetti e alle realizzazioni nel campo degli apparati effimeri, delle scenografie e, marginalmente, dell’architettura dei giardini, così come ben documentato dal fondo dei disegni di Foligno. Per quanto attiene al campo degli allestimenti effimeri, va segnalato lo splendido disegno di Carlo Murena redatto per un addobbo della facciata del palazzo del cardinale Rochechouart, ambasciatore di Francia. L’addobbo appare in sintonia con il fronte sul cortile di Palazzo Colonna realizzato da Posi nel 1756-1760 (lesene bugnate al piano terra) e con la facciata effimera (oltre le lesene bugnate, anche la sopraelevazione centrale con lo stemma papale), realizzata qualche mese prima in piazza Colonna a Roma, sempre su disegno di Posi per la nomina cardinalizia di Ignazio Crivelli. “Il disegno del Murena presenta per di più notevoli analogie con il disegno eseguito dal Piermarini per conto del Vanvitelli a Napoli, con la facciata effimera del palazzo Teora alla Marina di Chiaia, realizzata nel 1768 per le nozze di Ferdinando IV con Maria Carolina d’Asburgo; nell’ambito di una composizione linguisticamente più aggiornata su modelli franco-asburgici, il ritorno di elementi mureniani – con lesene bugnate e la parte centrale a serliana – fa pensare a un possibile intervento o consulenza progettuale di Piermarini”. Nella sua permanenza milanese, l’architetto folignate ebbe modo di esprimere anche questa sua specifica attitudine progettando allestimenti effimeri, in particolare nell’occasione dei festeggiamenti per l’avvento come Governatore nel 1771 dell’arciduca Ferdinando d’Austria e per le sue nozze con Maria Beatrice d’Este. Ad illustrare queste feste vi sono, oltre una serie di disegni dell’architetto e due incisioni, nonché un prezioso libretto di Giuseppe Parini (1825). Di questi festeggiamenti, che durarono una ventina di giorni tra cortei, banchetti, spettacoli, balli e processioni, di particolare interesse appare l’allestimento di un “circo effimero” attivo per un paio di mesi conservando il suo prevalente apparato di verzura. Il Circo di Piermarini si caratterizza per l’originale fondale scenico che vede la rappresentazione del Tempio di Flora innalzato sulla Montagnola come simbolo della natura che si rigenera in primavera: questa scena detta “della Cuccagna”, richiama il significato antropologico dell’albero della cuccagna legato al concetto di rinascita e rigenerazione della natura, nonché all’albero del maggio ed agli antichi riti connesse al solstizio di primavera. Tra gli allestimenti scenografici è da citare Il banchetto delle spose, uno spettacolo di vago sapore arcadico, seppure ambientato in uno spazio circense all’antica, con esedre all’estremità che richiamano ippodromi di verzura, descritti da Plinio il Giovane e rievocati in vari spazi teatrali come l’anfiteatro di Boboli. Nell’ambiente milanese questi allestimenti suscitarono grande entusiasmo in quanto mai visti prima, mentre il Piermarini ne era diventato esperto seguendo gli insegnamenti di Vanvitelli. All’esordio della sua permanenza a Milano egli collabora con Vanvitelli nella progettazione della nuova Porta Orientale (1769) con tipologia ad arco trionfale entro ali a quarto di cerchio: l’opera verrà da lui realizzata sotto forma di porta daziaria a piloni autonomi con porticati verso l’interno. Appare interessante raffrontare l’architettura del Tempio di Flora realizzato nell’ippodromo effimero presso Porta Orientale, con la soluzione adottata nello scalone monumentale della Villa di Passaggio: analogo il motivo della doppia scalinata a tenaglia con andamento concavo che si raccorda in un corpo centrale convesso con porta centrale (suggerita dalla tamponatura in sottosquadro) con arco a tutto sesto, finto bugnato a fasce orizzontali (nel Tempio di Flora si tratta di un bugnato commestibile, elemento ricorrente di quello che può essere definito opus cibarium). Si possono inoltre raffrontare alcune disegni in acquaforte, raffiguranti gli allestimenti effimeri della Cuccagna, realizzati davanti al Palazzo Reale di Napoli, con le sistemazioni del cosiddetto “giardino segreto” della Villa Boccaglione, anch’esso in un certo senso pensato come teatro esterno da allestire secondo le suggestioni derivanti dalle scenografie dell’effimero. Sono in particolare da notare le sistemazioni su doppi e tripli livelli caratterizzati da basse siepi e alberelli su vasi, collegati da scalinate diagonali speculari, fondale centrale monumentale con nicchie a simulazione di ninfei, vasche e fontane, con ghirlande di verdure, pinnacoli e vasi in sommità. Sempre tra i disegni della raccolta folignate, sono stati identificati quelli riferibili alla Coffee House dei giardini di Porta Orientale. I progetti descrivono una complessa macchina scenografica con quattro esedre disposte a croce greca, separate da quattro ambienti organizzati a croce di sant’Andrea. Nella versione più aperta, l’esedra di facciata contiene una scalinata con due rampe semicircolari, una sorta di scalinata a tenaglia, che ben richiama quella della nostra Villa. Questa originale configurazione di scalinata rimanda alla sede romana dell’Arcadia realizzata su progetto dell’architetto Antonio Canevari e dall’allievo Nicola Salvi: si tratta di una graziosa palazzina neoclassica, chiamata “Bosco Parrasio”, dalla facciata concava e un piccolo anfiteatro, preceduti da una scalinata ispirata a quella di Trinità dei Monti; in analogia con la nostra Villa, la scalinata a tenaglia, contiene un ingresso centrale giocato su un andamento concavo-convesso della superficie muraria e simili sono le proporzioni tra i vari elementi compositivi. Ritornando alla Coffee House dei giardini di Porta Orientale, è stato osservato che la sequenza di elementi concavi e convessi, si ispirerebbe agli studi giovanili di Piermarini sul tiburio borrominiano di Sant’Andrea delle Fratte. Tra le tipologie di riferimento possiamo ricordare altri esempi di Coffee House quale l’Esagono o Macchina di Villa Pisani a Stra (ideato da Girolamo Frigimelica intorno al 1720). Il complesso della Villa Pisani era caratterizzato da fondali e da punti di belvedere, quali il Gran Portone con il belvedere (alla terrazza superiore si accede da due colonne salomoniche, ovvero erculee, intorno a cui si avvolgono scale a spirale), la Coffee House (a maniera di altana sopra una montagnola) e la Torretta al centro del labirinto con la terrazza, cui si giunge attraverso una doppia rampa esterna a spirale. Sono evidenti le analogie con la Villa Boccaglione; anche qui troviamo il fondale rappresentato dal prospetto retrostante della fabbrica, caratterizzato dalle profonde arcate del porticato poste sul proseguimento di assi visivi. Si trovano anche due piccole torrette di foggia medioevale pianta leggermente ellittica, intendibili come citazioni di “colonne erculee” e dalle quali, attraverso strette scale a chiocciola, si raggiunge l’ampia terrazza balaustrata del piano superiore da dove è possibile, in un unico colpo d’occhio, apprezzare il disegno del giardino ad esedra, le due grandi vasche a pianta polilobata e, sullo sfondo immaginare le suggestioni del piccolo bosco all’inglese che vuol certo rappresentare la parte più nascosta e misteriosa, da percorrere in silenzio, seguendo le suggestioni dei miti e della storia. Il successo di Piermarini, conquistato con la lunga attività svolta a Milano e al servizio degli Asburgo, termina con i rivolgimenti politici d’età napoleonica. A seguito della sua destituzione dalla carica di pubblico architetto, decide di ritornare nella nativa Foligno, all’incirca nel 1798. Qui si occuperà delle sue case e del restauro del Duomo, tuttavia l’attività che lo impegnerà maggiormente sarà quella di tornitore artigiano. Nella sua bottega, oltre a produrre vasi, cancelli, realizzerà cornici, stucchi e pannelli dipinti per decorare camini e specchiere. Si può supporre che, dopo tanta attività e talento speso lontano dal suo territorio, anche la società e l’ambiente culturale umbro si rivolgessero a lui per realizzare opere significative per qualità architettoniche e raffinatezza decorativa, tali da risultare rappresentative per quei committenti che ora potevano avvalersi delle indubbie competenze dell’architetto di fama nazionale.
L’ARCADIA NELLA STORIA DELLA VILLA
Tra i tanti eventi che si svolgevano nella Villa sono da considerare di particolare rilievo quelli legati all’attività arcadica di cui è nota la relazione tra la storia del Boccaglione con quella dell’Università di Perugia. Sappiamo che, negli anni di maggiore floridezza della Villa bettonese, erano forti i legami tra le Accademie Letterarie e le Università, come erano altrettanto significativi i rapporti culturali tra gli Arcadi ed il mondo delle arti in genere. Questo ci porta ad ipotizzare che l’immagine e i valori culturali che ancora oggi presenta la Villa, siano anche il frutto di queste armoniose sinergie; quindi, approfondire la conoscenza dell’Arcadia perugina può aiutare a comprendere alcuni degli aspetti originali della stessa fabbrica e della sua composizione spaziale. Sappiamo che l’Arcadia è quel movimento letterario di ampiezza europea che si sviluppa nel Seicento, ad esempio con i nomi italiani di Giambattista Marino, di Salvator Rosa, e continua nel Settecento con Giuseppe Parini che scriveva sull‘Amore e sulla Natura. In questo circuito culturale si inseriscono anche i nomi di Vittorio Alfieri e di Carlo Goldoni. Quest’ultimo esordisce inizialmente come attore proprio tra la nobiltà perugina grazie all’attività di medico del padre, svolta nella città umbra, per poi spostarsi a Rimini e affermarsi definitivamente a Venezia, come grande scrittore di innovative commedie dell’arte. I cosiddetti “Arcadi” s’incontravano in teatri all’aperto, allestiti per le riunioni accademiche secondo il gusto pastorale; qui venivano recitate poesie ispirate dalla metrica e dallo stile degli antichi e redatte ed enunciate in onore di cari defunti, ma anche per eventi festosi, si declamavano solenni versi augurali per le giovani monacande, versi d’amore e inni in onore di personaggi illustri e spesso alle recitazioni di versi si abbinavano vere e proprie rappresentazioni teatrali. Intensa era l’attività arcadica e teatrale della seconda metà del Settecento nel mondo della nobiltà perugina: Bertolotti nei suoi racconti della cultura settecentesca, parlando di tutte le forme di arte, racconta della partecipazione poetica del maestro Luigi Vanvitelli, dell’attività di Giuseppe Antinori, come architetto di formazione romana e prevalentemente progettista di teatro, di Piermarini descrivendolo come un abile ornatista e della feroce critica al Barocco avviata da Francesco Milizia, che porterà, nella seconda metà del Settecento, al superamento delle leziosità borrominiane e berniniane. A questa fervida attività partecipano anche i nobili del Bucajone sulle orme della già affermata produzione dell’Arcadia romana, nata nel 1690 nel salotto dell’ex Regina Cristina di Svezia, con l’apporto di Gian Vincenzo Gravina e Giovanni Mario Crescimbeni, spesso affiancati da personalità di origini umbre quali ad esempio Giuseppe Paolucci (1661-1730) di Spello e Vincenzo Leonio da Spoleto. Si può pertanto opportunamente considerare che il volto neoclassico della Villa bettonese, dovuto al riassetto settecentesco, si delinei proprio in questo contesto culturale, assorbendo le suggestioni stilistiche emerse dalle numerose produzioni di ambiente romano e laziale e, in particolare, dalla originale realizzazione della già citata villa del cardinale Alessandro Albani, descrivendone gli aspetti architettonici che la pongono in possibile raffronto con la Villa di Passaggio di Bettona. Essere un Arcade dell’Accademia romana voleva dire essere pienamente coinvolto nel circuito culturale cattolico più importante del momento, fortemente ambito quale spazio per incontri illustri e per la circolazione delle nuove idee che si andavano esprimendo nello produzioni artistiche non solo italiane. L’accademia Letteraria rappresentava infatti il luogo di importanti confronti culturali di respiro internazionale, pur se comunque condotti sotto l’egida dei massimi esponenti della Chiesa Romana. Gli Arcadi promuovevano un ritorno all’antica purezza, non solo nei versi poetici ma negli animi. Dopo la scoperta degli scavi di Ercolano e Pompei dell’inizio del XVIII secolo, questa era divenuta una vera esigenza culturale, espressa nella nascita di numerose accademie, quali colonie di quella romana, in tutta Italia, inclusa l’Accademia detta “Augusta” di Perugia. L’osservazione e l’avvicinamento all’antico portano ad un nuovo modo di guardare il mondo circostante per farne motivo di ispirazione per la riscoperta della “classica bellezza” nell’espressione artistica. La nuova Arcadia diviene infatti anche strumento per indirizzare, progettare e riflettere sulla sorte delle arti e tra queste un posto di rilievo viene riconosciuto “all’architettura dell’Arcadia” che, proseguendo la suggestione della villa-museo del Cardinal Scipione Borghese, oggi detta Galleria Borghese, diviene “l’arte omnia” in cui tutte le altre possono confluire. Nella cultura arcadica si trova il seme del Neoclassicismo. Si è già accennato al privilegio assegnato a coloro che entravano a far parte del circolo arcadico e per comprenderne appieno il carattere, basti considerare la scelta obbligata di un nuovo nome che veniva assegnato ufficialmente con una vera e propria cerimonia di “battesimo”, a significare la rinascita ad una nuova vita dello spirito ed ad un nuovo approccio nei confronti della natura, della cultura e delle espressioni artistiche. Ad esempio, Luigi Vanvitelli, in Arcadia si chiamava Cleante Fidiaco o Archimede Fidiaco, e non a caso s’identificava con il genio greco fisico matematico in armonia con le scelte di rigore della sua architettura. Tra gli Arcadi più celebri troviamo il perugino cardinale Marco Antonio Ansidei sotto il nome di Aristandro, l’Abate Michele Giuseppe Morei, l’abate Gioacchino Pizzi, il cardinale Francesco Ricci della Congregazione del Buon Governo, eletto nel 1743 ed anche il cardinale Marchese Della Penna eletto nel 1728. Nell’Archivio Generale Romano, della produzione arcadica si trova conservata un’interessante lettera del 14 luglio del 1778, con la quale Luigi Ansidei, custode della Colonia Augusta di Perugia chiede al Custode generale l’Abate Gioacchino Pizzi, la patente per l’ingresso in Arcadia della contessa Anna Graziani, da identificarsi con la figlia dell’urbinate Girolamo Graziani (1604-1675), protettrice della biblioteca del padre colonnello, erudito e storico di grande rilievo. Nella lettera si chiedeva quindi l’ingresso in Arcadia di Anna, moglie di Pietro Baglioni, in concomitanza con l’adunanza organizzata in occasione di un matrimonio familiare: in soli quindici giorni la nobildonna entrò in Arcadia con il nome di Fille Turrenia. La lettera dell’Ansidei termina dicendo: “Mille saluti al caro Scarpelli, il quale potrebbe cantare quest’epoca e far quindi recare al pubblico il suo canto del figlio di Fuligno come in altre occasioni ha devotamente fatto. La lode piace ed alli nostri Perugini piace moltissimo”. E’ possibile che per “figlio di Fuligno” s’intenda proprio Giuseppe Piermarini, nativo di Foligno, e si può inoltre ipotizzare che la lettera costituisca un vero e proprio invito a celebrare le opere architettoniche dell’epoca, “cantare quest’epoca” per l’appunto, e tra queste quelle di Piermarini e del suo maestro Vanvitelli. Alla generazione di architetti contemporanei di Giuseppe Piermarini, viene pertanto assegnato il compito di proseguire la compenetrazione delle arti avviata da Bernini e Borromini, maestri nell’armonizzare l’architettura con l’arte teatrale e la scultura, spesso utilizzando come sfondo e palcoscenico la stessa natura; in tal senso accadeva spesso che gli artisti venissero chiamati ad eseguire progetti di piccole architetture in legno, leggere strutture da installare all’aperto per festose celebrazioni: l’architettura si compenetrava alla natura e la natura stessa acquisiva la forza di forma architettonica. La Villa Boccaglione non a caso si propone come uno dei più interessanti esempio di simbiosi tra l’architettura residenziale e l’arte scenografica espressa nei suoi giardini, ma anche nel maggiore respiro paesaggistico del suo inserimento nel contesto. Tra i massimi esempi di felice connubio tra architettura e arte scenografica, fonte d probabile ispirazione per la composizione della Villa bettonese, è da annoverare la già citata Villa Albani. In merito è da rilevare che nella sede della Biblioteca Angelica di Roma, (progettata da Luigi Vanvitelli), già sede dell’Archivio dell’Arcadia romana, nata nel 1690, è possibile rintracciare un diretto collegamento tra il Papa Albani e la Villa bettonese. In una raccolta di documenti manoscritti, insieme ad un elenco, redatto da Francesco degli Oddi, degli iscritti all’Accademia Romana di San Luca, è presente un documento descritto come Pagella del Dott. Giuseppe De Bartellis del Collegio Piceno scritta in lingua latina in pergamena che termina con il sigillo pontificio, in cui si vede lo stemma della Chiesa Apostolica Vaticana con le chiavi di San Pietro e un timbro stampato con un obelisco. Il documento è datato 1701 “in vigesima ottava mensis octobris… Clementis Papa XI”. Si tratta di un certificato di dottorato rilasciato a Giuseppe Bartelli dal Collegio Camporam Buccaronium. Il Camporam Buccaronis si può identificare con il nostro Bucajone, dove evidentemente già all’epoca si svolgevano le cerimonie dei dottorati in Legge; certo è che a dirigere la Cancelleria Priorale di Perugia era stato nominato Cesare Crispolti (1563-1608), già capo dell’ufficio dei Priori, e fu lui a disporre un’archiviazione ordinata dell’importante documentazione dell’archivio notarile. Del canonico Cesare Crispolti parlano diverse recenti biografie tra cui è da citare quella di Francesca Patrizi dell’Università di Macerata: in questa riferisce che nel 1591 il Crispolti entra in un prestigioso Collegio di Giuristi di Perugia. Un altro importante collegamento tra le Università di Macerata e Perugia sembra portarci al Bucajone attraverso alcuni personaggi della famiglia dei marchesi della Penna: Francesco della Penna (1581?-1593) fu uditore della Rota Romana e il fratello Adriano, Cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano, insegnò diritto civile nelle Università di Perugia e Macerata. La Irace parla di una convenzione scritta (1686) per la quale vi era uno scambio tra ufficiali giudiziari di Perugia e Macerata, nella Rota di Macerata, un sodalizio che sembra proseguire ben oltre il XVII secolo. Ma tornando alla figura chiave di Cesare Crispolti, si intuisce che probabilmente la sua abitazione era legata al sito del Bucajone; il Mariotti riferisce che la sua casa era pubblica scola e pubblico museo. Ci si pone qui il perché non ci siano documenti sull’attività universitaria del Crispolti e sul suo eventuale insegnamento. In collegamento a ciò, ovvero all’incerta attività di docente di Cesare Crispolti, o perlomeno al suo coinvolgimento in attività di carattere didattico/universitario, possiamo far risalire quella che conseguentemente divenne una vera e propria esigenza di disponibilità di spazi adeguati, che portò, forse, quale adeguamento di una preesistente dimora, alla realizzazione della elegante Villa arricchita da importanti giardini: luogo ideale per ospitare docenti ed allievi. Nello stesso periodo, due importanti famiglie, anch’esse legate all’Università di Perugia, in particolare per lo studio e l’esercizio delle professioni giuridiche, quella degli Alfani e quella degli Antinori, sono impegnate nella realizzazione delle loro sontuose ville suburbane. In particolare ci si riferisce alla Villa Alfani Silvestri, sorta in località San Martino Delfico, in prossimità di Perugia: sui preesistenti ruderi di un insediamento medievale, nel Settecento i conti Donini fecero costruire un bel complesso che, per rami femminili pervenne prima ai Danzetta, poi agli Alfani, quindi ai Silvestri e successivamente ai discendenti e attuali proprietari Caucci von Saucken. Il complesso, attribuito all’architetto perugino Pietro Carattoli, fu costruito tra il 1730 ed il 1739 e presenta diverse e significative affinità stilistiche con la Villa Boccaglione. L’altra importante residenza della famiglia Antinori è il Palazzo di Solfagnano, in origine fu la residenza fortificata della nobile famiglia Baglioni e nei secoli successivi, perduta l’importanza militare, il castello passò alla famiglia del marchese Antinori che, a partire dalla fine del secolo XVII ed i primi decenni del XVIII secolo, lo trasformò in villa suburbana. Il Bonazzi nella sua storia di Perugia racconta che prima del 1740 gli Antinori promossero la realizzazione di due importanti fabbriche nella città, ovvero Palazzo Gallenga Stuart (già Palazzo Antinori) su progetto dell’architetto romano Francesco Bianchi, e il Palazzo di Montemorcino Nuovo, annesso alla Chiesa degli Olivetani, sede dello Studio Perugino realizzata da Luigi Vanvitelli nel 1740; il palazzo viene acquisito dall’Università per creare una nuova sede dotata di ampi spazi adatti alle attività ricreative e al perfezionamento nelle arti e nei mestieri. Tutto ciò riconduce al già richiamato collegamento degli Antinori con l’Università degli Studi di Perugia. Intorno alla Università ed alla Colonia Arcadica perugina, fondata il 14 ottobre 1707, si condensa, quindi, una complessità di rapporti tra gli esponenti delle più importanti e nobili famiglie e gli architetti ed artisti spesso deputati ad incarichi e commissioni; quindi, visto lo stretto legame tra Luigi Ansidei, nel suo ruolo di custode della Colonia Augusta di Perugia, e la famiglia Crispolti che, già a partire da Cesare Crispolti, sembra aver mantenuto continui e stretti rapporti con gli ambienti culturali perugini. Non si può escludere che si debba proprio a Luigi Ansidei la promozione della prima ristrutturazione dell’edificio che poi la Villa Boccaglione, nell’intento di adattarlo alle esigenze connesse alla pluralità delle attività universitarie e farne una sede della Colonia Augusta. Il cantiere per la ristrutturazione della residenza potrebbe quindi essere stato affidato in un primo momento all’architetto perugino Pietro Carattoli (1703-1766), già fortemente impegnato sia come architetto che come decoratore e scenografo, nella realizzazione di altre importanti ville e palazzi e più avanti, per una possibile riedizione e completamento, a Giuseppe Piermarini. In mancanza di documenti certi, resta come plausibile tesi meritevole di approfondimento. E’ evidente che proprio la seconda metà del Settecento coincide con il massimo splendore della Villa e con quelle che si possono considerare le più significative vicende costruttive, in quanto ne determineranno i valori di originale esempio di architettura neoclassica. Ben presto tuttavia seguirà in antitesi il periodo di massimo declino, coincidente con le campagne napoleoniche che interromperanno bruscamente la continua ascesa in termini di acquisizione di un ruolo prestigioso, dovuto all’intensa attività culturale che in essa veniva ospitata. Con l’inizio delle spogliazioni ed il lento ma inesorabile abbandono, rafforzato dalle pesanti vicende del secondo conflitto mondiale che videro la Villa trasformarsi in sede del comando militare tedesco, l’intero complesso venne mano a mano privato dei suoi valori di testimonianza storica, per essere adibito ad usi non consoni alle proprie caratteristiche, con conseguente avvilimento del ruolo esemplare di originale espressione culturale del secolo XVIII. Più recentemente, a seguito dell’acquisizione al patrimonio dello Stato, impegnata negli interventi di restauro, ma anche da parte della popolazione locale, che, con sempre maggiore evidenza, sta acquisendo consapevolezza della inderogabile esigenza di provvedere collegialmente alla sua tutela e valorizzazione.
LA VILLA E IL SUO LUOGO
Il complesso di Villa Boccaglione si colloca in quel particolare ambito della valle umbra estesa tra Assisi e Perugia, nel punto segnato dai fiumi Topino e il Chiascio, punto di cerniera tra la valle Tiberina e la Valle Spoletana. Il nome attuale di Passaggio di Bettona si collega probabilmente al miracoloso “passaggio” di San Crispolto, inviato da San Pietro da Gerusalemme ad evangelizzare L’Italia, secondo la tradizione. Il riferimento religioso è al santo, vissuto nel I secolo d. C. e ciò porta a pensare che il luogo fosse tradizionalmente associato all’evangelizzazione e alle prime figure di martiri cristiani. La Villa si pone al centro di quella che, al momento della sua edificazione, costituiva la vasta proprietà terriera della famiglia Crispolti. Sulla base della visibilità del luogo, i proprietari pensarono di configurare l’abitazione in maniera moderna e rappresentativa, facendone un esempio-sintesi del modello di villa suburbana e di quello di villa urbana. Nella villa urbana, il giardino s’intende quale luogo riservato, solitamente cinto da alte mura che costituiscono una netta separazione tra gli spazi privati e quelli pubblici. Anche la Villa in questione, nonostante si collochi in aperta campagna, si richiude su se stessa e nelle sue mura, segnando quindi una netta separazione dal territorio agricolo, quasi a testimoniare l’intento dei proprietari di affermare la propria raggiunta agiatezza, al pari delle famiglie che nella città di Perugia già possedevano pregevoli residenze. L’elemento che mette in relazione il complesso architettonico con il territorio circostante è rappresentato dal viale rettilineo: un vero e proprio asse prospettico che inquadra sullo sfondo l’ingresso monumentale di accesso al recinto e il lungo fronte della residenza padronale. L’osservazione delle planimetrie del catasto Gregoriano, indicate come Mappa Colle Sala e Malandruge, ci porta a notare diverse particolarità: l’asse prospettico rettilineo, generato dal lungo viale e che prosegue virtualmente, dopo aver attraversato perpendicolarmente la Villa, in direzione del boschetto e quindi del paesaggio aperto, non rappresenta solo la matrice della composizione architettonica dell’impianto, ma sembra voler incidere significativamente anche sull’organizzazione del territorio esterno al complesso. Infatti, questo asse, se letto in direzione inversa, prosegue al di fuori, fino ad innestarsi su una sorta di rondò per poi proseguire, fino a raggiungere l’insediamento contraddistinto dal toponimo Palazzetta, ricadente anch’esso nelle proprietà della famiglia Crispolti, e da qui verso l’antica abbazia di San Crispolto. Dal rondò si dipartono, in maniera simmetrica e secondo uno schema ad “X”, altre quattro direttrici che interagiscono con il territorio circostante. Genericamente, in direzione dell’asse nord-ovest sud-est, anche se senza una volontà prospettica precisa, è un’altra proprietà dei Crispolti: il Casino di Piaceri. Il complesso deve il suo nome al passaggio di proprietà tra la famiglia Crispolti e quella dei Piaceri, che erano stati precedentemente i mezzadri. La planimetria ci fornisce una vasta serie di ulteriori informazioni in merito alla condizione della Villa e dei suoi annessi, ma anche dei giardini; in particolare, per questi ultimi, “l’Allegato C”, riportato in mappa, definisce la consistenza dei due corpi di fabbrica delimitanti il giardino segreto, del quale viene resa addirittura la vasca del ninfeo, presente nel livello superiore. Il volume a sud, corrispondente ad un’antica limonaia, oppure ad una rimessa per le carrozze, appare ancora libero nel suo prospetto esterno, da tutti quei fabbricati che verranno successivamente addossati al muro di perimetrazione, per essere destinati ad abitazione dei mezzadri. Sul fronte contrapposto si individuano chiaramente la scuderia, la casa colonica ad essa contigua, la chiesa compresa tra due edifici ed il corpo di fabbrica a ballatoio che collegava il piano nobile della residenza al matroneo della chiesa, riservato ai Signori che da qui potevano assistere alle celebrazioni. Nel cortile d’onore risultano tratteggiati i percorsi, così come per il giardino ad esedra retrostante la Villa. Sempre nella planimetria catastale, si nota il disegno del viale centrale in direzione dell’uscita, segnata da due imponenti pilastri, mentre agli estremi contrapposti sono indicati gli obelischi e le due statue a chiusura simbolica dei due viali laterali provenienti dagli ingressi, individuati a loro volta da una coppia di pilastri. Nel perimetro dell’esedra si contano 24 piedistalli, che in origine sorreggevano molto probabilmente busti di personaggi illustri o vasi o altri elementi decorativi o simbolici, quali piccoli obelischi e risultano accennate le due torrette ai margini del porticato. E’ interessante notare che, appena oltre la delimitazione planimetrica del giardino, vi sia una segnatura di forma circolare di diametro stimabile intorno ai 6 metri: la coloritura rosata della mappa porta a pensare che si tratti proprio di una costruzione in analogia con il metodo di segnatura degli altri fabbricati. Del resto, questo originale schema planimetrico richiama la pianta generale della Villa di Monza con il progetto dei giardini, conservata nella sezione Raccolta dei disegni e delle stampe della Biblioteca Nazionale di Vienna. Questa planimetria di grandi dimensioni è composta da due parti: una rappresenta il palazzo, il cortile d’onore (lato est) con l’ampio viale rettilineo, tracciato in direzione di Milano e fiancheggiato da un doppio filare di alberi, il viale verso Monza (lato nord), i vasti giardini (lato ovest), il grande ninfeo a quota bassa, nella parte centrale e il parco all’inglese sulla sinistra; la seconda parte rappresenta il prolungamento del giardino nella parte boschiva fino al fiume Lambro, ai mulini e al convento della Madonna delle Grazie, con un lungo viale prospettico e un rondò a stella. Le assonanze sono evidenti: anche nel progetto per la Villa Reale di Monza, come nella planimetria del Catasto Gregoriano riferita alla Villa del Boccaglione, i tracciati viari si intersecano perpendicolarmente tra loro secondo uno schema a raggiera con fulcro coincidente con il rondò a stella. L’asse principale “attraversa” perpendicolarmente la Villa ed i giardini per proseguire, quale prolungamento del giardino, nella parte boschiva fino al fiume. Anche lo schema compositivo dei vari corpi di fabbrica e il rapporto tra di loro e con il contesto del complesso monzese, presenta similitudini con quello adottato per la Villa bettonese. Quest’ultima, seppure in proporzione ridotta, s’impone sul territorio ad una scala dimensionalmente superiore rispetto alle costruzioni tradizionali, attuata con rigore costruttivo e sobria eleganza. Nella Villa monzese, altrettanto razionale e misurato è l’impianto complessivo che ripropone lo schema di corte aperta di ascendenza sei-settecentesca dalle ville di delizia lombarde, organizzandone l’immagine lungo un asse di perfetta simmetria. La direttrice prende avvio dallo stradone alberato di accesso, quindi attraversa la corte d’onore, in origine non cintata verso l’esterno, per sfociare nel giardino retrostante. Nella villa piermariniana, l’organizzazione volumetrica è incardinata sull’asse ottenendo l’effetto di una strutturazione volumetrica apparentemente semplice e con un’orizzontalità prevalente. Nell’insieme, le varie parti del complesso, seguono un’ordinata e graduale organizzazione che vede il corpo della villa posto centralmente, sebbene crei una sagoma a “C”. E’ evidente che tale descrizione si conforma appieno con l’osservazione dei salienti caratteri del complesso del Boccaglione. Nell’edificio bettonese la direttrice, attraversa il fornice del piano terra per dare accesso ai giardini retrostanti e proseguire oltre, fino a costituirsi quale asse centrale di composizione dell’esedra, attraversare il boschetto e quindi superare il grande portale di fondo per dispendersi nell’ampiezza indefinita della campagna, in direzione del fiume. In generale, il complesso è strutturato in tre blocchi, di cui il primo, conformato su uno schema quadrato, comprende il parterre d’ingresso con il corpo della Villa sullo sfondo. Esso è contraddistinto dalla vasta area della corte d’onore quadrata aperta oltre l’ingresso monumentale, a conclusione del lungo viale d’accesso. Sono probabilmente da far risalire al secolo XVIII i primi interventi di sistemazione degli spazi di pertinenza della Villa e questo primo parterre viene composto su schema geometrico, riferito alle ripartizioni in forme quadrangolari tipiche del modello italiano, anche se nella planimetria del Catasto Gregoriano lo schema cambia e i percorsi secondari si intersecano secondo le diagonali. Questa “corte d’onore” ha il suo fuoco prospettico con la monumentale scalinata a tenaglia sul fronte della Villa ed è delimitata da eleganti quinte architettoniche, segnate nelle loro estremità da varchi simmetrici con immissione a destra nel giardino all’italiana o “giardino segreto”, e a sinistra alle residenze ed agli spazi di servizio della fattoria. Quest’ultimo fronte è più alto, in quanto su di esso si incastona al centro la piccola chiesa dedicata alla SS. Annunziata, e sono visibili i prospetti delle costruzioni retrostanti. Nella specifica configurazione architettonica qui composta, il primo recinto murario costituisce una vera e propria cesura tra gli spazi riservati alla famiglia ed ai suoi ospiti, alle cerimonie ed alle celebrazioni religiose, e la campagna circostante fortemente caratterizzata dall’uso agricolo e dove sorgevano gli edifici domestici, le residenze del fattore, insieme ai frutteti, agli orti, ai seminativi. Il secondo blocco si pone sulla destra, conformandosi su una planimetria rettangolare, sempre delimitato da tratti murari e da costruzioni che assolvono analoga funzione di perimetrazione definendo il “giardino segreto”. Il terzo blocco si organizza sul retro della Villa ed è il più esteso, comprendendo il giardino ad esedra, quindi il boschetto ed i viali alberati; questa ampia area, in origine cinta da mura, si connette all’aperta campagna attraverso un imponente varco. Soffermandosi sul prospetto frontale, viene naturale raffrontarlo nuovamente con la Villa Reale di Monza. Anche nella nostra Villa la facciata è estesa e bassa, ritmata da leggere paraste e non vi sono aggetti particolari ad enfatizzare la composizione architettonica, ma solo un modesto avanzamento della parte centrale. Il prospetto principale, come detto, si articola su tre livelli (lunghezza di 49,56 metri ed altezza di 12,88 metri), caratterizzati per il bugnato rettilineo del piano terra di ridotto spessore, mentre una minima profondità è conferita alle lesene dei piani superiori e alla sovrapposizione degli ordini, tutti temi che individuano lo stile anti-monumentalistico tipico del Piermarini. Le difficoltà compositive insite nello sviluppo lineare del fronte vengono risolte attraverso una sua decisa tripartizione, mediante l’impiego dell’ordine gigante e la creazione di un coronamento a “finto attico” con funzione di elevazione del prospetto e di liberazione dall’eccessiva rigidezza geometrica. L’uso della tripartizione permette di aggettare minimamente la parte centrale della facciata rispetto alle ali laterali, con le quali si raccorda tramite cantonali a sezione concava, alleggeriti dalla presenza di quattro nicchie angolari, due su ogni lato, sovrapposte. Le nicchie, con ogni probabilità accoglievano delle statue in gesso ispirate ad un repertorio classico, come si evince da altre sculture presenti nell’ambito. I gessi abbellivano la facciata e costituivano elementi di forte caratterizzazione della stessa; tale espediente concede al fronte episodi di contenuto movimento, spezzando la linearità dell’insieme con elementi curvi e vere e proprie citazioni barocche. L’adozione dell’ordine gigante, formato da lesene semplici o doppie, permette di intelaiare differentemente i tre piani di profondità del fronte, al fine di interrompere la monotonia della composizione architettonica e di costringere lo sguardo dell’osservatore a muoversi lungo le linee, le concavità e le convessità. Nonostante tali espedienti compositivi, i valori plastici sono comunque contenuti al massimo mentre vengono privilegiati quelli grafici e ritmici. Tutte queste caratteristiche, del resto, ben si adattano ad edifici di dimensioni limitate, spesso finanziante da committenza borghese, come nel caso della residenza di Bettona. Volendo ipotizzare il richiamo progettuale al Piermarini, risulta in ogni caso evidente che nell’esempio del Boccaglione molto si ritrova degli spunti lessicali del suo cosiddetto “neocinquecentismo”. In tutte le sue realizzazioni egli non trae mai la propria grammatica architettonica dalle fabbriche dell’Alessi o del Tibaldi che gli dovevano risultare troppo decorate e imperniate sull’uso della colonna, elemento spesso escluso nelle sue opere, preferendo piuttosto lasciarsi condurre dalle suggestioni vanvitelliane. Anche nella Villa in esame si può intravedere un certo “stile vanvitelliano”, contraddistinto da una purezza compositiva depurata da ogni tensione plastico-dinamica, vale a dire, da ogni valenza barocca e da ogni perentorio e grandioso impaginare. In quest’esempio, i vari corpi di fabbrica si organizzano secondo lo schema a “U”, quasi a voler omaggiare la tradizione locale, tuttavia ad una attenta verifica si riscontra che nulla viene concesso al gusto scenografico dei tanti esempi tardobarocchi. Nel caso bettonese, la conformazione planimetrica delle architetture che perimetrano il parterre d’ingresso, si configura su uno schema ad “U”, e come nella villa di Monza, non vi sono fusioni spaziali e compenetrazioni dei diversi volumi: i vari elementi tendono a rendersi autonomi e definiti nella loro funzione, sono semmai giustapposti ma non integrati. La zona dell’ingresso principale risulta connotata, in maniera piuttosto meccanica, dal blocco dello scalone monumentale a doppia rampa, articolato secondo l’alternarsi di superfici concave e convesse trattate a bugnato in leggero rilievo. Le rampe sono costituite da gradini monolitici in arenaria e delimitate da balaustre composte da pannellature di elementi decorativi in laterizio, detti “ciambelloni”, per la loro originale forma, intervallate da pilastrini. Le rampe contrapposte terminano sull’ampio pianerottolo ovale su cui si apre il grande portale d’ingresso al piano nobile sovrastato in origine dallo stemma della famiglia Crispolti; al piano superiore vi corrisponde il pregevole balconcino. La suggestiva tipologia di scalinata a tenaglia, pur rappresentando un elemento di forte caratterizzazione del prospetto, non costituisce tuttavia una vera e propria invenzione: infatti soluzioni analoghe sono rintracciabili in altre nobili residenze di campagna presenti nel territorio perugino e folignate. Consultando il repertorio dei complessi monumentali presenti in Umbria, è possibile verificare che la tipologia di scalinata a doppia rampa semicircolare è presente in diverse residenze; tra queste vi è la Villa del Colle del Cardinale, ubicata in località Colle Umberto, nel Comune di Perugia; qui, il grande emiciclo terrazzato detto Piazza Grande è caratterizzato dal sistema di scale a doppia rampa, che accentua la forte convessità del fronte. Tale soluzione risale alle importanti trasformazioni che l’impianto severo della villa alessiana subisce nel Seicento e Settecento ad opera della famiglia perugina degli Oddi. Altro esempio lo troviamo in Villa Alfani Silvestri, sempre a Perugia, in località San Martino Delfico. Questo complesso attribuito all’architetto perugino Pietro Carattoli (1703-1766) fu costruito tra il 1730 e il 1739 su preesistenti rovine medioevali. Qui la facciata principale della residenza padronale presenta una conformazione fortemente concava ripresa dalla stessa scalinata monumentale. Esempio significativo nel raffronto con Villa Boccaglione, anche per la vicinanza geografica, è la villa denominata La Montagnola nel territorio di Torgiano, in località Rosciano. Il nucleo originario della residenza, costruito dalla famiglia Baglioni tra la fine del Seicento ed i primi del Settecento, è il risultato delle trasformazioni che, già nel corso del secolo XVIII, portano ad un significativo ampliamento della residenza con l’aggiunta del cortile interno e dell’intera ala orientale. Il giardino viene ingrandito e ridisegnato con grandi parterres. Anche in questo caso, “il complesso villa-giardino assume la configurazione di una sontuosa residenza di campagna del perugino” (Durante). Nel suo lavoro, Alberto Durante già sottolinea le evidenti assonanze con la villa del Boccaglione e descrive così la facciata della Montagnola: “L’aggetto centrale, sebbene identico a quello odierno, non sembra decorato da fasce bugnate, che invece ornano tutto il piano basamentale, alleggerito dalla bella scala emicicla a tenaglia, con una composizione che ricorda lo stile della coeva e vicina villa del Boccaglione, evocando ascendenze francesi. La somiglianza è accentuata dal largo impiego del motivo decorativo del bugnato piatto e dall’uso dell’attico di coronamento che col loro classicismo contrastano con gli elementi più tipicamente e capricciosamente rococò quali le incorniciature delle finestre fastigiate dai timpani e soprattutto la scala, anzi le scale perché dovevano essere due”. Soffermandoci ulteriormente sul tema della scalinata a tenaglia, non possiamo non citare l’esempio di Villa Candida in località Sant’Eraclio, nel Comune di Foligno, edificata nel Settecento dalla famiglia Candiotti, anch’essi grossi possidenti terrieri come già lo furono i Crispolti. Il fabbricato presenta un corpo centrale più alto rispetto alle porzioni laterali; la facciata è scandita da paraste e marcapiani. “L’insieme, riconducibile alla cerchia del Piermarini, presenta un gusto già neoclassico, attenuato dalle volute ancora rococò dell’alzato centrale e soprattutto dal plastico e deciso chiaroscuro della bella scala a tenaglia semicircolare che adduce all’ingresso del piano nobile” (Durante). Il riferimento riconduce la particolare soluzione della scala a tenaglia alle realizzazioni afferenti la cerchia culturale di Piermarini, così come nella costruzione, sono riferimenti: la tripartizione in verticale, l’impiego dell’ordine gigante e la realizzazione di uno pseudo attico, quale coronamento sommitale dei prospetti. Le due facciate laterali della Villa Boccaglione, molto più contenute nel loro sviluppo lineare, recuperano lo stesso schema compositivo di quella principale. In assoluta continuità con questa, vi è la tripartizione delle fasce orizzontali delle lesene riprese dal fronte, unicamente in corrispondenza del coronamento. Il prospetto posteriore è il più articolato delle quattro e presenta importanti variazioni nel piano terreno e nel primo livello. La composizione architettonica ripropone i motivi di quella principale, pur semplificandoli con un’intelaiatura essenziale. Il forte basamento della facciata è sostituito da un porticato sviluppato su tutta la lunghezza con effetto di alleggerimento dell’immagine complessiva e come elemento avanzato rispetto al piano del prospetto; è inoltre modulato da coppie di lesene tra le quali si sviluppa una sequenza di aperture trabeate ed arcuate. Esso sorregge il grande terrazzo del piano nobile magistralmente definito dalla balaustra in laterizio con traforo, realizzato con elementi contrapposti analoghi a quelli della scalinata del prospetto. Alle due estremità del porticato vi sono due torrette a pianta ovale realizzate in stile neogotico, con profilo leggermente svasato alla base e verticale verso l’alto, con l’ultima porzione in aggetto a formare il coronamento sorretto da piccole mensole intervallate da archetti. Dal livello del giardino ad esedra e da ognuna delle torrette, attraverso una piccola porta archivoltata, si accede alla scala a chiocciola interna che arriva sulla balconata del piano nobile.
ASPETTI ORIGINALI: LE SCALE ED IL CUPOLINO DEI VENTI
Tra le numerose peculiarità architettoniche, richiamate nel corso della trattazione, meritano un approfondimento gli esempi di scale coclidi presenti nella Villa e il cupolino dei venti che di fatto sembra impropriamente collocato in un ambito marginale con una funzione accessoria, non adeguata alla raffinatezza del manufatto.
Le scale coclidi
La scala a chiocciola, che per la sua fluida dinamicità, ben si confà alla cultura barocca, si sviluppa secondo un sistema ascensionale di avvolgimento ed è chiaro sinonimo di una architettura dinamica, pensata per stupire con le sue stravaganti soluzioni. Tra i diversi modelli, per gran parte derivabili dalla tradizione rinascimentale, la scala coclide è senza dubbio uno tra i migliori, in quanto, per le sue specifiche caratteristiche e per le possibilità compositive offerte, si presta alla trasfigurazione dinamica dell’architettura, avviata dal linguaggio borrominiano. Basta osservare alcuni disegni di Borromini, ancora prima di analizzare le sue realizzazioni, per comprendere la sua speciale preferenza per le scale di tipo a spirale, studiate nelle possibili varianti strutturali e nelle diverse utilizzazioni, sia come scale di servizio, sia come scaloni d’onore. Quelle più piccole vengono spesso ricavate dove vi sono spessori murari considerevoli, che possono essere opportunamente svuotati, per consentirne l’inserimento, mentre in presenza di “sciaveri” e spazi irregolari derivanti dall’organizzazione planimetrica e da vincoli imposti da preesistenze, una loro opportuna conformazione compatta ne fa l’elemento architettonico risolutivo e in grado di generare un’architettura organica e fluida. Esempi eccellenti di scale inserite all’interno di involucri murari scavati, sono gli innesti angolari nella pianta della chiesa di San Carlino alle Quattro Fontane e di Sant’Ivo alla Sapienza e, in particolare, quella che scende nella chiesa inferiore del primo e quella del palazzo di Grotte di Castro di Jacopo Barozzi da Vignola. Le suddette realizzazioni sono raffrontabili con le scale di servizio presenti nella Villa bettonese, anche se non immediatamente percepibili, in quanto nascoste all’interno di piccoli stanzini di passaggio. In questo caso, esse collegavano le stanze padronali ai locali del piano del sottotetto riservati alle stanze della servitù, che da qui poteva svolgere il proprio servizio evitando qualsiasi disturbo alla quotidianità dei signori e dei loro eventuali ospiti. Sebbene confinate ad una evidente funzione di collegamento tra i vari livelli, le piccole scale, inserite in maniera inusuale per il caso specifico testimoniano le virtuose capacità di rielaborazione e adattamento di un sintagma fin troppo consueto del linguaggio architettonico (prima del Rinascimento le scale a chiocciola, che occupavano lo spazio minimo indispensabile, costituivano la regola), all’interno di una ipotesi costruttiva totalmente rinnovata quale quella dell’architettura barocca. Gli esempi presenti nella Villa sono ascrivibili alla tipologia a rampa libera a sbalzo, che esclude la presenza di un perno centrale. E’ interessante notare la perizia costruttiva e l’attenzione alla definizione formale del manufatto denunciata dalla impronta del perno utilizzato nella predisposizione costruttiva, per poi essere rimosso e che diviene dettaglio di raffinatissima fattura, integrandosi con leggerezza avvolgente della superficie intonacata all’intradosso della scala, risolta con la naturalezza di un panno teso. La tipologia di scala elicoidale presentava vantaggi anche nell’applicazione agli scaloni d’onore e per le scale di maggiore importanza in genere, in quanto necessitava di minore ingombro rispetto alle soluzioni a rampa su pianta quadrangolare, permettendo allo stesso tempo una maggiore libertà nella progettazione con possibilità di nuove e originali soluzioni. Sono queste le ragioni delle tante sperimentazioni, ma anche delle tante importanti realizzazioni del Barocco. Scaloni elicoidali costituiscono connotazioni architettoniche specifiche di molti dei progetti borrominiani di palazzi e ville, anche se poche sono le realizzazioni, che tuttavia non si discostano dai prototipi cinquecenteschi e da quelli derivanti dalla trattatistica, nonostante l’opera borrominiana presenti una diversa ed evidente raffinatezza esecutiva. Ed è proprio questo concetto di raffinatezza esecutiva a risaltare nell’osservazione anche dello scalone elicoidale collocato nell’ala sinistra della Villa. A livello planimetrico, è prodotto dalla integrazione di tre equivalenti settori del cerchio, determinati da tre punti generatori della circonferenza. La forma planimetrica derivante è quella di un triangolo equilatero in cui i lati sono settori di circonferenze. Per comprendere le origini geometrico-costruttive può risultare interessante richiamare gli studi di Dimostrazione geometrica dello scalone di Palazzo Barberini condotti da Felice della Greca (Curcio, 1978).
Il cupolino dei venti
Tra le originalità della Villa Boccaglione, a ragion veduta, può essere annoverato il cupolino dei venti che, pur collocato in prossimità della stanza degli specchi, ha di fatto mantenuta nascosta la sua immagine originale, poiché relegato in un ambito di difficile accesso a causa delle intervenute trasformazioni nella distribuzione interna del piano nobile e del terzo livello. Il cupolino, allestito su pianta ovale si sviluppa su tre livelli, ognuno contraddistinto e delimitato da una plastica cornice; al diverso ordine corrisponde una diversa altezza della fascia compresa tra le cornici, graduata in termini proporzionali allo sviluppo in altezza. I diversi ordini si raccordano tra loro attraverso quattro lesene decorative simmetriche e leggermente aggettanti che proseguono fino a chiudersi ad anello alla base del lanternino per poi essere riprese in corrispondenza dei quattro pilastrini svettanti in verticale che delimitano le quattro finestre. Nell’ultima sezione del cupolino, la plasticità delle paraste è aumentata dall’inserimento di quattro zone in sottosquadro. La lanterna, unica porzione fluorescente della copertura, termina con un cupolino all’intradosso del quale è raffigurata la rosa dei venti. Gli espedienti costruttivi, sopra richiamati, che graduano l’altezza delle partiture architettoniche, sono finalizzati ad ottenere una sorta di illusione prospettica che tende ad assegnare maggiore ariosità al manufatto architettonico, aumentandone l’effetto di elevazione. Per meglio comprendere ed apprezzarne l’originalità e la suggestiva conformazione architettonica, è opportuno accennare brevemente alla provenienza della forma ovale, mirabilmente adottata nelle produzioni architettoniche barocche. La scoperta copernicana delle orbite eccentriche aveva trasformato il modello di riferimento per la lettura dei fenomeni cosmici, da circolare ad ovale, con il Sole eccentrico; ma nessuno degli ovali geometrici fino ad allora conosciuti e provati era in grado di eliminare la discrepanza tra osservazione e modello teorico. Johann Kepler nel 1602 ipotizzò che la velocità dei corpi celesti non fosse costante e ritenne utile ipotizzare la forma ellittica, ovvero “la figura che stava tra le due”, con la stella ad occupare uno dei due fuochi; tale ipotesi venne poi confermata dal riscontro della natura variabile del moto ellittico marziano. Con Kepler la matematica divenne così la lingua segreta dell’universo: il codice per la codificazione dei suoi segreti. Kepler morì nel 1630 senza che le sue eccezionali scoperte producessero effetti particolari non solo nel campo scientifico, ma nemmeno nelle altre discipline umane. Occorrerà aspettare ancora, almeno fino all’emergere della figura di Gianlorenzo Bernini, considerato pertanto il primo architetto apparentemente affascinato dalle scoperte kepleriane. Durante la sua lunga carriera, egli infatti sembrò concentrarsi su di una lunga e sistematica sostituzione della figura circolare con quella ellittica, in continue sperimentazioni di soluzioni architettoniche: il modello dinamico delle orbite celesti applicato ai nuovi modelli dell’architettura barocca. Anche se l’ovale non costituisce affatto una novità per gli architetti barocchi e del resto la stessa ellisse era conosciuta già dagli architetti rinascimentali, senza dubbio, Bernini approfondisce le potenzialità della forma ovale in termini di espressione architettonico-scenografica, consapevole delle intrinseche proprietà ottiche e delle conseguenze percettive nell’osservazione dinamica. Del resto, l’originalità e il segreto della proposta berniniana nell’uso della forma geometrica risiede proprio nel disporre l’ovale in pianta con l’asse maggiore ortogonale all’ingresso. Tale disposizione si accorda perfettamente con l’idea di condensare lo spettacolo in un luogo preciso per un preciso punto di vista. La costruzione geometrica segue uno schema a quattro centri che prende avvio da un rettangolo aureo: la sua diagonale forma un triangolo rettangolo che, riprodotto simmetricamente rispetto agli assi individuati dai cateti, allestisce lo schema romboidale di base con i quattro centri nei vertici. A questo punto occorre costruire due circoli ausiliari, aventi come centro i due vertici acuti del rombo e come raggio il cateto minore del triangolo aureo, che determinano sull’asse minore i punti di intersezione dei circoli minori dell’ovale e, di conseguenza, il loro raggio. I prolungamenti delle ipotenuse su questi circoli dettano infine i punti di continuità e, di conseguenza, il raggio degli archi maggiori. Tra le proprietà di un simile ovale c’è quella di avere il rapporto tra i due assi molto prossimo a 2/3 e di distaccarsi di pochissimo (2,5% più stretta sul raggio dell’arco minore) dall’ellisse costruita sugli stessi assi. Ma la peculiarità di questo specifico ovale, che si potrebbe chiamare “aureo”, è quella di indicare, nei quattro punti di continuità degli archi, i quattro vertici di un altro rettangolo aureo, peraltro avente i lati di lunghezza doppia rispetto al rettangolo di partenza (ed è perciò uguale, ma ruotato di 90° rispetto all’ipotetico rettangolo circoscritto al rombo di base). Corollario di questa proprietà, è quello di avere i centri degli archi minori su una circonferenza inscritta nel rettangolo aureo o, in altre parole, sui vertici di un quadrato ruotato a 45°, in analogia col secondo e col terzo schema. L’ovale, già apprezzato per la sua bifocalità e direzionalità, si traduce nel Seicento, come nella vicenda kepleriana, in ambigua figura di raccordo tra cerchio ed ellisse in un momento di passaggio tra un universo rigorosamente centrico, circolare e a velocità costante, ad uno eccentrico, ellittico e a velocità variabile. Così, laddove il cosmo assume geometrie e moti sfuggenti e cangianti, la circonferenza, tradizionalmente evocata per la sua capacità di rappresentare sulla Terra l’ordine divino nei cieli, cambia registro, trasformandosi in figura ideale, in pura astrazione matematica, e come tale sarà indagata, non senza una certa nostalgia, dai maggiori artisti e architetti dei secoli successivi. Per quanto attiene all’architettura, il riferimento immediato è il celebre lanternino di Sant’Ivo alla Sapienza del Borromini, ma un esplicito rimando ai cupolini barocchi lo ritroviamo anche nella piccola cupola soprastante il vano scala che conduce al terzo piano della Villa. E’ questo l’aspetto più esplicitamente barocco della struttura che ben si confaceva alla funzione di accoglienza e rappresenta l’interpretazione barocca delle forme berniniane e borrominiane, capace di sovrapporre con libertà una cupola a pianta ovale ad una struttura rettangolare, per creare un significativo punto di luce proveniente dall’alto in comunicazione con il cielo. La cupola sintetizza la fase barocca dell’edificio. Anche nel modello adottato per la Villa del Boccaglione, possiamo sperimentare direttamente, seppure a scala ridotta rispetto alle prestigiose produzioni berniniane, il fascino coinvolgente della forma ovale. Alla piccola cupola si accede ora dal salone degli specchi, attraverso un’angusta scala a doppia rampa, al termine della quale, alzando lo sguardo, ci si trova sovrastati dall’immagine architettonica del cupolino inondato di luce. Già oggi l’effetto è sorprendente, ma ancora di più doveva essere lo stupore di chi poteva apprezzarla nella sua veste originaria, ovvero prima che le diverse esigenze distributive/funzionali della residenza comportassero la creazione del solaio che ora chiude il vano scala. In origine, infatti, il vano del cupolino era a tutta altezza e si sviluppava su due livelli, occupando per intero la stanza a cui si accedeva direttamente dal salone degli specchi attraverso la porta centrale delle tre presenti sulla parete, per proseguire nel terzo livello (secondo piano) fino al sottotetto ed oltre con la lanterna svettante sulla copertura. In questa originale conformazione, era pertanto possibile apprezzare pienamente la forma ovale della costruzione geometrica con l’asse maggiore disposto ortogonalmente a quello che doveva essere l’ingresso privilegiato dal salone degli specchi, nell’ottica di un’analogia con le sperimentazioni berniniane. Si è già detto come questa particolarità sia finalizzata a suggestionare la visione verso una dimensione dinamica e spettacolare. Del resto “spettacolarità” e “dinamicità” sono concetti già perfettamente espressi nel salone degli specchi che, nella sua immagine originaria e integra, con le iridescenze derivanti dal particolare trattamento degli stucchi, dalle suggestioni degli effetti ottici ed illusionistici delle decorazioni, dai rimandi continui delle rispecchiature luminescenti, anticipava in maniera efficace le suggestioni del cupolino. In questi due luoghi precisi e integrati tra loro si condensava lo spettacolo degli interni barocchi della Villa, in grado di catturare lo sguardo stupito ed indirizzarlo in alto verso la lanterna dei venti, magari illuminata dalla luce iridescente della luna.
AMBITI ANNESSI: LA LIMONAIA E LA SCUDERIA
Sulla quinta muraria alla destra del parterre frontale, in posizione speculare all’ingresso monumentale del giardino segreto, si apre l’analogo accesso al grande locale in origine adibito a limonaia e costituito da quattro campate delimitate da archi ogivali. Questo corpo di fabbrica, che si sviluppa per gran parte della lunghezza del giardino segreto, ne costituisce il recinto murario. Sulla parete di destra del locale, orientata a sud, si aprono ampi finestroni provvisti di grate e portelloni lignei, tuttavia privi di veri e propri infissi (quasi sicuramente riconducibili alla destinazione originaria del fabbricato). Altri dettagli di carattere architettonico ci inducono ad ipotizzare che a questa originaria funzione ne sia stata in seguito adattata una diversa. Occorre notare che l’ultima campata di fondo sembra avere avuto, in un tempo non facilmente precisabile, una destinazione differente ed autonoma. Essa venne infatti chiusa con la tamponatura dell’ultimo grande arco, in modo da ricavarne un ambiente separato e accessibile unicamente dal giardino con due diversi e affiancati accessi. Tale ambiente era ed è tuttora comunicante con i due contigui locali voltati e decorati e presenta due ampie finestre sul lato a sud, diverse per dimensione e conformazione con i grandi finestroni che caratterizzano la restante porzione della ex-limonaia. Altro particolare da notare è la presenza di un lacerto di intonaco decorato a raffigurare una cornice che in alto perimetrava il locale. Al di sopra di tale cornice si notano ancora i punti di fissaggio di quella che in origine doveva essere la centinatura lignea atta a sostenere una controsoffittatura in camorcanna. Inoltre, è ancora bene apprezzabile la decorazione parietale con una composizione architettonico-decorativa di lesene e specchiature con originali effetti di plasticità e profondità prospettica. In merito alla possibile datazione di questa sistemazione, rapportata al resto della ex-limonaia, si può unicamente ipotizzare che sia stato breve il tempo del ripensamento dell’originario progetto di realizzazione di questo locale separato. Infatti, la tamponatura dell’ultimo arcone, con cui si viene a creare il locale, si sovrappone ad una finitura delle pareti già realizzata ad intonaco preesistente: questo particolare induce a supporre che fosse già per gran parte completato il grande locale da adibirsi a limonaia. Riprendendo il confronto con altre coeve residenze signorili presenti sul territorio regionale, ritroviamo un’identica tipologia costruttiva nella limonaia di Villa Meniconi in località Castel del Piano a Perugia. Anche in questo esempio un esteso locale si compone di quattro campate separate da considerevoli archi ogivali, ampie finestrature ed un imponente portale a timpano, si aprono sul giardino abbellito da vasi di limoni. La Villa assume la configurazione attuale a seguito di importanti interventi condotti nella seconda metà del Settecento ad opera di Sperello Aureli. Dopo la morte di quest’ultimo, la proprietà della Villa passò alla famiglia perugina dei conti Alfani, ai quali appartenne fin oltre la metà dell’Ottocento. Le trasformazioni settecentesche sembrano potersi attribuire al progetto ed alla guida del Canonico della Cattedrale di Perugia, Costanzo Batta (1710- 1791), allievo di Carlo Murena, a sua volta allievo di Nicola Salvi e Luigi Vanvitelli 8ritrovando così la suggestiva ipotesi di collegamento con la cerchia culturale del folignate Piermarini e quindi ipoteticamente con la Villa Boccaglione). Altro esempio di limonaia così configurata, è riscontrabile nella Villa di Montefreddo, in Località Bagnaia, nel perugino, che, con i suoi spazi aperti, rappresenta un significativo esempio di villa sei-settecentesca soprattutto per: “l’eleganza dei giardini pensili all’italiana, per la vastità e singolarità della limonaia, la più grande esistente nel territorio perugino, e per la rilevanza dell’insieme paesistico che la circonda”, (Durante, 2000). L’impianto originario della villa sorta su preesistenze più antiche, si deve ad Angelo degli Oddi di Laviano, che la fece costruire nel 1634 genio ac rurali otio. Gli Oddi restarono proprietari della villa per quasi trecento anni, provvedendo al suo ampliamento ed abbellimento; passando poi ai conti Marini Clarelli. In questo caso la grande limonaia è direttamente collegata alla galleria, che costituisce il prolungamento della facciata, da una bella scala a doppia rampa: “segno evidente che, sia pure eccezionalmente veniva usata come particolare ambiente di ricevimento”. E’ un dato importante che pone in stretta relazione questo spazio con quello analogo della Villa Boccaglione: anche quest’ultima certamente ebbe una seconda, ma non meno rilevante, funzione di ambito per ricevimenti e spettacoli. L’uso è peraltro acclarato dalla presenza sia delle decorazioni scenografiche ancora leggibili sulle pareti di fondo, ma anche e soprattutto dai due piccoli locali contigui, aventi apertura diretta sulla sala e funzione di studiolo o di camerino abbellito da raffinate decorazioni. Non si può concludere la descrizione degli aspetti peculiari della Villa in oggetto senza accennare alla scuderia che, seppure collocata negli spazi retrostanti il cortile d’onore, oltre il recinto murario e quindi non immediatamente percepibile, tuttavia costituisce un manufatto di pregio. La costruzione della scuderia fu probabilmente legata alle cariche di cavalierato di Malta, di cui alcuni membri di sesso maschile della famiglia Crispolti erano stati insigniti, a distanza anche di secoli. Questo luogo avrebbe quindi un ruolo rappresentativo del livello sociale raggiunto dai Crispolti. In pianta lo spazio si organizza con un corridoio centrale affiancato su due lati da un doppia fila di colonne con capitello dorico, che lo dividono dagli stalli per gli animali. La copertura è a capanna con struttura lignea. In corrispondenza del corridoio centrale resta la testimonianza della presenza di un soffitto orizzontale con travi lignee intervallate sulla sequenza delle colonne realizzate con elementi in cotto, poi sapientemente intonacate con dettagli di finitura veramente importanti, se raffrontati alla destinazione del locale.
I GIARDINI
Con la pubblicazione di Alberto Durante sulle ville, i parchi e i giardini in Umbria, viene presentata un’esaustiva sintesi dei caratteri artistici della Villa Boccaglione, contestualizzandola nell’ampio repertorio delle ville umbre. Nell’affrontare la descrizione dell’architettura, dei suoi giardini e delle trasformazioni intervenute, egli propone delle foto d’epoca insieme a due disegni a tempera di Alberto De Marchis (1785), raffiguranti le facciate posteriore ed anteriore della Villa in questione. I dipinti sono parte di un’intera collezione di tempere, accomunate dal tema illustrativo, e custodita nella Villa Aureli-Meniconi di Castel del Piano. Queste tempere, in quanto coeve al periodo di massimo splendore e integrità della Villa in esame a Bettona, permettono di recuperare sia l’immagine originaria delle fabbriche che dei giardini, dei quali fornisce una prima suggestiva rappresentazione. La bottega dei De Marchis è attiva in Umbria nella seconda metà del Settecento, ovvero nei decenni in cui l’arte delle rappresentazioni paesaggistiche, nata un secolo prima, conosce una rinnovata significativa affermazione. Nell’ambito delle collezioni private, le vedute naturali erano spesso proposte in piccoli formati; i quadri cosiddetti da cavalletto erano fruibili da molti sia per il limitato valore economico sia per le minime dimensioni del soggetto. Inoltre, i paesaggi trasmettevano all’osservatore quella tranquillità e gioia che solo la natura emana pienamente, fu questo il motivo per il quale il genere pittorico ebbe grandissima fortuna tra gli appassionati d’arte e i collezionisti del XVIII secolo. La bottega De Marchis è esemplare in questa corrente artistica di gran successo, proprio perché rispondeva puntualmente alle esigenze dell’ideologia neoclassica di “ritorno alla natura”. Alessio de Marchis (Napoli, 1684 – Perugia 1752) fu il capostipite della scuola, originario di Napoli giunse a Roma all’età di diciassette anni intorno al 1701 (Salerno, 1972). Il giovane artista apprese l’arte dei paesaggi ed operò molto nella Roma di Clemente XI. Si specializzò in paesaggi fantastici e soprattutto negli incendi per cui resta ancora oggi famoso. La sua opera romana è accertata nel Palazzo Ruspoli al Corso nel 1720 e suoi quadri si trovano nella Galleria Corsini e nella Raccolta Pediconi; inoltre, egli lavorò anche per la famiglia Theodoli. La protezione della potente Famiglia Albani gli permise di lavorare a Perugia ed ad Urbino, luogo di grande influenza da parte degli Albani. A Perugia viene accertata la sua paternità a trentaquattro paesaggi nel Museo del Duomo da Busiri Vici, critico che più di altri ha fatto chiarezza sulle vicende artistiche del pittore. Sempre a Perugia il cultore locale Serafino Siepi nella seconda metà del Settecento ne annota le opere presenti nelle dimore signorili del capoluogo umbro. Si deve ad Alberto De Marchis l’esecuzione 1785 delle due vedute della Villa del Boccaglione. Le due tempere, realizzate come rappresentazione prospettica, sono vedute realistiche del fronte principale e di quello posteriore che includono anche la rappresentazione, seppure parziale, dei giardini (la corte di ingresso e i giardini retrostanti) animati e resi ancora più veritieri con l’inserimento di personaggi intenti a passeggiare nei viottoli, tra le siepi di bosso e i parterres erbosi. Nella veduta del fronte principale della Villa, in corrispondenza delle costruzioni che delimitano il recinto della corte, si nota ancora la presenza del campanile a vela, distrutto da un fulmine alcuni decenni fa, ma soprattutto si notano le sculture contenute nelle quattro nicchie del prospetto, i sei pinnacoli svettanti dal coronamento del piano attico, collocati in corrispondenza delle principali partizioni architettoniche e compositive del fronte, ed ancora i vasi e le sfere in laterizio di ornamento alle balaustre della scalinata a doppia rampa. Sul fronte destro del recinto murario della corte possiamo notare ancora la raffigurazione di due ampie finestre, ora non più esistenti, anche se nel corso dei più recenti interventi è stato possibile rintracciare dei lacerti di decorazione parietale che ne riproponevano la configurazione originaria, cui corrisponde un’analoga soluzione decorativa presente nel retroprospetto. Anche la veduta posteriore, in cui la Villa è rappresentata quale sfondo, permette di apprezzare i dettagli già evidenziati per il fronte: sono raffigurate le statue collocate all’interno delle quattro nicchie, i sei pinnacoli del coronamento sommitale, le due torri circolari all’estremità del fronte, i vasi e le sfere in laterizio sulla balaustra del grande terrazzo e originali tende poste a protezione del porticato, due delle quali risultano alzate ad accentuare la verosimiglianza della rappresentazione. In questa veduta viene dato particolare rilievo ai giardini, dei quali vengono disegnati con precisione l’ampio viale centrale e i viottoli laterali dove si notano uomini e donne intenti a passeggiare, inseriti per rafforzare l’immagine di quotidianità, le basse siepi di bosso che caratterizzano, con le loro linee sinuose, le grandi aiuole punteggiate da manufatti decorativi, forse piccoli obelischi, ed ancora le due grandi vasche con zampillo centrale. Sicuramente tali rappresentazioni costituiscono suggestivi spunti per sviluppare lo studio di complessi valori storico-artistici, ma anche simbolici sia in termini di contenuti, integrando così la complessità delle realizzazioni architettoniche. Pertanto non si può ritenere esaustiva la trattazione delle vicende storiche della Villa, se si omette l’analisi dei suoi spazi verdi. Bisogna ricordare che già i trattatisti rinascimentali consideravano l’arte dei giardini una parte delle problematiche architettoniche, in quanto gli spazi esterni destinati al verde erano visti come estensioni dell’edificio. Nel De re aedificatoria, Leon Battista Alberti fornisce le norme per l’edificazione della villa suburbana. Ispirandosi ai testi classici di Vitruvio e Plinio, Alberti indicava come fondamentale la scelta del sito: meglio se esposto al sole, lambito dal vento e non troppo lontano dalla città. Intesi come fondamentali componenti delle abitazioni, gli ambiti esterni dovranno svilupparsi secondo un impianto simmetrico integrato all’edificio e dovrà riflettere gli ideali di unità ed armonia delle parti, già alla base delle realizzazioni architettoniche. Francesco Di Giorgio Martini, specializzato in architetture militari, nel suo Trattato di architettura, consiglia di adattare il perimetro del giardino alle caratteristiche del luogo, in modo da ottenere una conformazione regolare. Già nei suoi trattati, Leon Battista Alberti concepiva, come modalità per introdurre all’interno della residenza di città, i modelli dell’otium, sviluppati nella villa suburbana. Nel caso della Villa bettonese si sono già inquadrate le possibili ragioni di opportunità della scelta del sito, collocato in un ambito pianeggiante, cerniera tra la valle Tiberina e la Valle Spoletana e dove il fiume Chiascio e il Topino mescolano le loro acque poco prima di confluire nel Tevere. Al tempo della sua massima floridezza, sicuramente dalla Villa lo sguardo poteva percorrere libero un orizzonte vastissimo che comprendeva, oltre a Bettona posta sul colle di fronte, anche il versante di Assisi e Spello. Forse proprio per questa estrema visibilità data dalla collocazione al centro di una vasta proprietà terriera, i proprietari, affidando l’incarico della progettazione, intesero configurarla unendo elementi della villa suburbana con quelli della villa urbana. In quest’ultima tipologia, il giardino è solitamente cinto da alte mura, a segnare una netta separazione con il resto della città e anche la Villa in oggetto, con i suoi giardini, si richiude su se stessa cingendosi di mura, segnando quindi una netta separazione con il territorio agricolo circostante, non partecipe alla riservatezza della residenza dei signori, che in tal modo intendevano palesare la propria nobiltà o il prestigioso livello sociale raggiunto. Si lascia così, come unica relazione territoriale, il prolungamento ideale dell’asse progettuale, più volte richiamato: connessione più teorica che concreta. Come già illustrato, la direttrice segnata dal viale d’ingresso prosegue divenendo asse di simmetria della stessa composizione architettonica e degli spazi esterni; essa attraversa il corridoio voltato del piano terra per poi ricollegarsi al paesaggio retrostante e, una volta attraversato il boschetto, raggiunge l’accesso sul recinto murario perdendosi poi nel paesaggio circostante. Mentre il parterre si configura come un unico spazio, la cui planarità non è disturbata nemmeno da apparati vegetazionali, il giardino segreto, disponendosi su tre livelli ascendenti a mano a mano che ci si allontana dall’edificio principale, crea delle vere e proprie “stanze”. Dal cortile centrale, si raggiunge il giardino “pensile” attraverso un grande arco, superato il quale si nota sulla destra il corpo di fabbrica della limonaia, segnato da un imponente portale con cimasa, realizzata in laterizio con intonaco decorato del quale restano pochi lacerti, mentre sul lato sinistro si staglia il recinto murario con gli ingressi al giardino ad esedra. Queste costruzioni delimitano il primo settore del giardino, di forma rettangolare, quadripartito da aiuole, intorno alla fontana circolare posizionata centralmente. Al secondo settore del giardino si accede da una sorta di fondale strutturato su due scalinate a doppia rampa, di dimensioni più contenute e anch’esso quadripartito con aiuole disegnate da basse siepi di bosso. Questo settore consente l’ingresso alla seconda limonaia, ovvero il corpo di fabbrica, in corrispondenza del lato nord. L’accesso all’ultimo livello è segnato dalla pregevole scalinata a profilo polilobato, che inquadra la vasca realizzata a quota del terreno cui è sovrapposta la grande nicchia del ninfeo decorata alla base con frammenti di pietra calcarea di cava non lavorata. Questa resa materica intende simulare le rocce naturali sulle quali l’acqua poteva gradevolmente ruscellare, mentre sulle pareti è presente un mosaico bicolore composto di piccole tessere di pietre calcaree chiare (travertino e pietra sponga) e pietre di origine lavica, su cui spiccano motivi decorativi realizzati con brillanti tessere nei colori primari, a formare il simbolo di un fiore. La nicchia del ninfeo, posizionata in alto e centralmente, costituisce il fulcro prospettico dell’intera composizione. In questo giardino formale ritroviamo tutti i riferimenti a quello che rappresentò il preminente modello rinascimentale. Anche quest’ultimo, il giardino segreto, è parte integrante della Villa, considerato come un ampliamento verso l’esterno e come tale organizzato secondo precise regole architettoniche, basate su un impianto geometrico regolare, in cui le basse siepi dividono i vari comparti. In tal modo, si contribuisce ad interrompere le visuali prospettiche, creando un ambiente più riservato, veri e propri “salotti” verdi in cui è possibile appartarsi per leggere, riflettere, conversare. In questa tipologia di giardino rinascimentale i viali sono contenuti e non vengono concepiti per offrire una visuale prospettica sul palazzo, ma hanno la funzione di collegare tra loro le “stanze”, alcune poste su quote diverse, mentre il viale centrale non è mai troppo ampio e non conduce quasi mai alla facciata principale del palazzo, che talvolta è addirittura posta lateralmente. Insieme alla particolare cura dedicata all’aspetto architettonico del verde, vi è anche un rinnovato interesse per l’antichità, nonché alla laicizzazione del repertorio simbolico-allegorico. Come evocazione del mondo classico, si possono trovare così inserite le riproduzioni di statue antiche, di valore simbolico, in grado quindi di trasformare i luoghi che le ospitano in cenacoli culturali, teatri o boschi sacri. Il nodo connettivo con il successivo livello, nonché il centro vero e proprio di tutto il giardino, è la grande e profonda vasca circolare perimetrata da una balaustra formata da elementi in cotto. Ogni “stanza” presenta delle basse siepi di bosso disegnate a broderie. Queste, secondo la sapienza topiaria dell’epoca, disegnavano linee ondulate, curve sinuose, spirali e motivi floreali. Con i più recenti interventi di restauro si è provveduto al reimpianto delle siepi, riproponendo gli schemi decorativi deducibili dalla documentazione fotografica storica. Il centro del segmento di separazione tra i primi due livelli è segnato da una piccola vasca semicircolare, posta a quota del terreno, sovrastata da una nicchia da cui zampillava acqua e protetta da una sobria ringhiera in ferro. Alle estremità contrapposte del fronte vi sono due nicchie: in quella di destra è raffigurato Bacco (o meglio Dioniso) con una botticella zampillante, mentre a sinistra è possibile intravedere una figura satiresca che cavalca un delfino, senza tuttavia ricavarne ulteriori informazioni per una chiara identificazione. La presenza dei due personaggi mitologici sembra voler assegnare al giardino il valore di luogo di diletto e ambito prescelto per suggestive rappresentazioni teatrali: per gli antichi Bacco era considerato anche il dio del teatro. Il secondo livello si struttura su una superficie rettangolare quadripartita da aiuole e dai percorsi che si incrociano ortogonalmente secondo lo schema già stabilito nel primo piano, segnando il centro della composizione con un piccolo rondò, il cui diametro è uguale a quello della vasca del primo e uguale a quello del pianerottolo semicircolare di sbarco della scalinata a rampe contrapposte. Le due aiuole di fondo hanno il loro perimetro esterno ritagliato a semicerchio per raccordarsi con l’ampia scalinata polilobata, posta centralmente al muro di contenimento per l’ultima quota del giardino; questo tratto murario in origine terminava con due vasche contrapposte contenute nell’altezza dello stesso. Sullo sfondo si trova il ninfeo, affiancato da due aperture ad arco che costituiscono affacci sugli spazi esterni. A ben osservare si nota che queste due aperture in origine costituivano elementi integranti di una estesa e complessa decorazione a trompe-l’oeil che interessava i tre fronti murari delimitanti quest’ultimo livello che, visto nella più ampia strutturazione del giardino, forma il vero e proprio sfondo all’intera composizione architettonica e scenografica. Si notano ancora rappresentati tralicci e balaustre con rampicanti, finestre d’affaccio con sfondo il cielo azzurro. Se ne deduce che nell’intenzione progettuale vi fosse il proposito di “alleggerire” l’immanenza del fondale, aprendolo verso ulteriori suggestioni di integrazione dell’architettura con il contesto. La strutturazione del giardino segreto basata su schemi simmetrici molto controllati, ma sapientemente composti, insieme sia agli elementi decorativi opportunamente collocati a segnare i punti focali della composizione, sia all’affetto scenografico – che solo possiamo immaginare – derivante dagli intonaci decorati a trompe-l’oeil, dallo zampillare delle fontane e dai grandi vasi di limoni disseminati lungo i vialetti, sicuramente ne faceva un luogo estremamente piacevole. Un possibile raffronto, sulla base più ella tipologia della scala, può essere intravisto con il modello del giardino del Belvedere. Il magnifico progetto del Bramante si risolve nella costruzione di un nuovo paesaggio, che sfruttando la naturale conformazione acclive del sito, si configura su tre livelli terrazzati, tra loro collegati da rampe di scale; lo spazio del cortile inferiore, destinato agli spettacoli, era munito di gradinate per gli spettatori. Il sistema dei dislivelli terrazzati, collegati da scalinate, rappresenta un’efficace e originale soluzione in quanto amplifica il senso di profondità, di lunghezza e di altezza di tutta l’area: soluzione che, dopo la realizzazione del giardino dei Papi, diverrà un’importante riferimento nella successiva progettazione di casi analoghi e quindi è ipotizzabile anche per quello della Villa Boccaglione. In questo caso, non essendovi la possibilità di sfruttare alcuna acclività del terreno, i tre diversi livelli del giardino segreto si costruiscono artificialmente con riporto del terreno in modo tale che la composizione geometrica possa svilupparsi in senso ascendente, secondo la percorribilità che, partendo dall’ingresso principale, conduce fino al ninfeo. Quest’ultimo mantiene sempre il valore di fulcro di riferimento della composizione geometrica e delle visuali prospettiche. Rispetto a tale schema, l’elemento simbolico rappresentato dall’acqua, w quindi le vasche e le fontane, costituisce un aspetto imprescindibile e fortemente connotativo: è dal ninfeo che prende avvio il complesso sistema idraulico che alimenta tutte le fontane della Villa, comprese le due grandi vasche del giardino ad esedra. Per ciò che riguarda gli aspetti botanici del giardino segreto, oltre alle siepi di bosso ed alla presenza di numerose piante di agrumi in grandi vasi collocati lungo i viottoli all’interno delle aiuole, le foto storiche documentano anche la presenza di due esemplari di palme che svettavano sull’ultimo livello del giardino: di queste ne è sopravvissuta solamente una. A tal riguardo, si può dire che la palma, oltre a testimoniare una moda esotica del periodo, rappresenta anche il simbolo della emancipazione della condizione terrena di vita e di morte, attraverso il raggiungimento dell’immortalità, intesa anche come dimensione spirituale e apertura mentale. Sia per il significato simbolico, o per quel fascino innato delle essenze originarie di paesi lontani, si può presupporre che le palme siano state impiantate nel corso della definitiva sistemazione raggiunta tra la fine del secolo XVIII ed i primi anni del secolo XIX. In quel periodo, in molti esempi di giardini italiani, all’originaria struttura barocca se ne andrà sovrapponendo una del tutto nuova derivante dai principi romantici che tendono a concepire i giardini non più come luogo di svago, ma piuttosto come luogo privilegiato della memoria, del ricordo e della malinconia. Del resto, questo giardino, come gli altri, nel suo trasformarsi segue le idee e le mode del momento per conformarsi alla vita e alla quotidianità dei suoi fruitori; quindi per meglio ricostruire le diverse fasi che segnano il legame del verde con la vita della Villa, possiamo prendere in considerazione l’originaria conformazione del giardino segreto, caratterizzata da una distribuzione plano-altimetrica su tre quote differenziate che inevitabilmente suggerisce il raffronto con il canonico spazio teatrale composto di palco sopraelevato rispetto alla platea. L’organizzazione degli spazi su tre diversi livelli, collegati da una suggestiva doppia scalinata, ben poteva adattarsi ad un uso di “teatro all’aperto”. In merito è da considerare che proprio con l’inizio del secolo XVIII si afferma la trasformazione dei giardini in possibili spazi teatrali dove la vegetazione, sia naturale che artificiale, diverrà parte integrante della scenografia: uno spazio definito in cui si potranno avvicendare quinte vegetali, logge, ninfei, scalinate e terrazze aperte sulle prospettive del sistema verde, accogliendo la narrazione teatrale. Esso diviene così il luogo privilegiato per incontri galanti, feste e suggestive rappresentazioni. Possiamo ipotizzare che, in questo spazio all’aperto, vi fosse un vero e proprio teatro costruito come grande locale. Nella Villa del Boccaglione questa funzione può essere stata assolta dalla grande limonaia che delimita il lato destro del giardino. Si tratta di un’ampia sala rettangolare con soffitto a struttura lignea e costoloni ad archi a sesto acuto, realizzata in origine come serra, ma con possibilità di utilizzo, quando veniva meno la funzione primaria e i vasi erano già stati sistemati all’aperto. Esso diventava come un teatro collegato allo spazio esterno, potendo allestire rappresentazioni teatrali che prevedessero l’utilizzo, nell’ambito della stessa narrazione, sia del locale, che del giardino. La presenza delle tre stanze decorate da pitture a tempera e raffinati stucchi, connesse alla limonaia, sostengono tale ipotesi. Gli spettatori potevano godere di rappresentazioni suggestive che, prendendo avvio all’interno del locale proseguivano poi all’esterno con allestimenti di carattere effimero, usufruendo delle potenzialità scenografiche del “giardino segreto”. Pensando alle sue potenzialità come luogo teatrale e quindi luogo della messa in scena di brani della vita e del pensiero dell’uomo, non si può che evidenziare come, nel corso della lunga storia dei giardini artificiali, il primo compito assunto da un progettista, consisteva nel definire e porre in atto tutti quegli espedienti in grado di generare sensazioni di sorpresa, di mistero e di originalità già proprie della natura. Nel 1790 Johann Georg Sulzer nella sua Teoria generale delle Belle Arti affermava che l’arte dei giardini “discende immediatamente dalla natura, la quale è essa stessa la più perfetta giardiniera”. Nella villa e nei suoi spazi verdi, si coltiva il piacere dell’intelletto oltre che quello fisico dell’otium, dove è sempre la natura a donare il contributo maggiore; qui il soggiorno si protrae per lunghi periodi, soprattutto nella bella stagione, quindi l’architettura deve accogliere l’ospite, potendo far fronte a tutte le sue esigenze quotidiane, sia ordinarie, ma soprattutto straordinarie, ovvero quelle ispirate dalla necessità intellettuale e spirituale, con la possibilità di conversare, di suonare, leggere, recitare, e per rispondere a tali necessità, lo spazio opportunamente costituito è proprio il giardino segreto e gli altri giardini diversamente organizzati e predisposti, quali quelli presenti nel retroprospetto. L’asse prospettico già citato, che dall’accesso su cui s’innesta la planimetria della Villa permette di avere una lunga visuale dal piccolo locale ovale d’ingresso al piano terra, riuscendo ad inquadrare perfettamente con lo sguardo lo sfondo del giardino ad esedra. Lo schema ad emiciclo del giardino richiama quello del Japanisches Palais di Dresda, i parterres all’inglese, presenti nella parte sinistra del Vaux le Vicomte poco distante da Parigi, e quelli della Reggia di Caserta. Nel giardino del Boccaglione l’esedra circoscrive un ampio parterre di basse aiuole di bosso, creando volute curvilinee, secondo schemi ornamentali ripetuti specularmente sui due settori a destra e a sinistra del viale. Entrambi i settori si compongono di due distinte aree divise da una grande vasca, il cui profilo si accorda con il disegno curvilineo delle siepi. Il perimetro ad emiciclo nella sua originaria integrità, era segnato dal susseguirsi di ben 30 basamenti in muratura, ovvero 15 per ogni settore, che probabilmente sorreggevano busti di personaggi illustri, storici o filosofi, oppure anfore e piccoli obelischi. Oggi i piedistalli sono ridotti a pochi frammenti, mentre delle sculture e dei vasi non si ha nessuna traccia. Il boschetto di querce e carpini doveva probabilmente essere conformato in origine come una sorta di galleria verde, in analogia con i due ampi corridoi di piante ad alto fusto che affiancano il giardino, inquadrando sullo sfondo i due grandi obelischi in laterizio. Gli stessi erano sorretti da quattro piccole sfere unite al basamento. A questi due elementi verticali corrispondono due sculture in gesso raffiguranti, per quanto possibile dedurre dai pochi resti, un Ercole Farnese a destra, e molto probabilmente Apollo alla sinistra. Appena superato il giardino ben composto dell’esedra, ci si trova quindi immersi nella vegetazione rigogliosa di alberi ad alto fusto del “giardino all’inglese” dove i riverberi della luce solare, le suggestioni evocate dagli obelischi e dalle sculture invitano alla riflessione attraverso il richiamo ai grandi miti del passato, come era usuale nella cultura esoterica del secolo XIX, cui peraltro sembra ispirarsi questo particolare giardino. L’insieme costituito dal giardino ad esedra, dai viali laterali e dal boschetto rappresenta un unicum: in questo ambito risulta interessante la compresenza, tuttavia perfettamente integrata, del giardino formale e di quello paesaggistico rappresentato dal boschetto che richiama i temi arcadici. Entrambi si apprezzano come visione di unitarietà, di labile equilibrio tra la selva, apparentemente scomposta e le aiuole apparentemente rigorose. Tra i due ambienti non vi è alcun rapporto di sottomissione, piuttosto un contrasto dialettico, il cui risultato finale è la forma concepita in virtù delle opposizioni tra il pieno e l’informale della selva (boschetto) e dei viali con alberi di alto fusto, contrapposti al vuoto ed al formale degli spazi prospettici e dei segni artificiali. Proprio alla fine del XVIII secolo, in tutta l’Europa, si fa strada una diversa e del tutto nuova concezione del verde, determinando le significative trasformazioni inerenti l’immagine definitiva di questa particolare area della Villa. Quelli che furono gli ordinati giardini di foggia cinquecentesca con aiuole riquadrate secondo rigidi disegni geometrici e le complesse volute delle siepi di bosso perdono a poco a poco la loro artificiosità per adeguarsi definitivamente al gusto romantico del verde secondo natura (di una natura tuttavia migliorata e ingentilita). Nasce il giardino paesaggistico, quale rifiuto dell’artificiosità francese, per abbracciare l’idea di una natura che non può essere dominata, bensì interpretata, creando giardini posti in un rapporto di continuità con la natura e non più la definizione di cesure tra il giardino e la campagna circostante. Questo insieme è circoscritto da un basso recinto murario rettangolare con un ampio varco monumentale all’aperta campagna, segnato da due grandi pilastri, mentre un più modesto varco si apre (oggi ne restano poche tracce), sul lato sinistro individuando un percorso che, come documentato dalle mappe del Catasto Gregoriano, si indirizzava verso un segno circolare, che si potrebbe intendere come un piccolo padiglione o un simbolico tempietto, collocato esternamente alla perimetrazione del giardino vero e proprio. Di questo manufatto non resta alcun segno evidente, se non pochi frammenti di pietrame e laterizio confusi con le zolle del terreno coltivato, che tuttavia possono ritenersi sufficienti a non escluderne l’effettiva presenza alla data del rilevamento catastale. La presenza all’interno del boschetto di due imponenti obelischi e delle due statue raffiguranti Ercole e Apollo, avanzano l’ipotesi di un ulteriore spazio dedicato allo svago, complementare alla soluzione adottata per il “giardino segreto” la cui funzione di teatro, connessa ai sentimenti di ambiguità, di ebbrezza e di sensualità, era sottolineata dalle raffigurazioni di Bacco e di una figura satiresca a cavallo di un delfino. Si tratta di un diverso modello di giardino, rinnovato, non più introverso con la tipologia a gradoni, ma aperto, di maggiore respiro, con suggestioni sempre nuove mano a mano che viene percorso. Agli incanti simbolici degli obelischi e delle statue di Ercole e Apollo, aderiscono anche le due torrette a pianta ovale, collocate agli estremi del porticato, Queste ultime, stilisticamente completamente estranee all’architettura adiacente, sono realizzate sulla base del progetto illustrato nel disegno conservato alla Galleria Nazionale dell’Umbria, costituiscono le cosiddette fabriques o folies, già elementi caratterizzanti molti dei giardini paesaggistici inglesi del secolo XVIII. Esse vennero concepite come costruzioni architettoniche in miniatura, erette per ornare le prospettive a cui viene affidato un preciso programma iconografico. Non si esclude che nel giardino della Villa Boccaglione, insieme agli obelischi, alle torrette (chiaro rimando alla storia medievale e templare), e alle statue vi fossero anche altri manufatti, magari padiglioni orientaleggianti o piccole capanne, volti a caratterizzare i giardini come veri e propri scenari, accentuandone l’aspetto più segreto e misterioso. In questa originale conformazione di giardino che potremmo definire “arcadico”, ogni elemento costituisce una rappresentazione simbolica: gli obelischi evocano l’antico Egitto, la statuaria il periodo classico, le torri il Medioevo, e quindi nel loro integrarsi, affermano la volontà di unire “tutti i tempi e tutti i luoghi” in una sorta di enciclopedia eclettica a cielo aperto. Le costruzioni e i singoli manufatti acquistano un preciso significato culturale e vengono percepiti come immagini emblematiche di un’epoca passata o di un paese lontano, spesso con espliciti riferimenti a singolari messaggi ideologici. Il manufatto diviene pertanto un elemento significante, un simbolo, una passata età dell’oro inquadrata nella corretta dimensione storica. Questi contenuti avranno la loro massima espressione proprio nei giardini romantici, dove ai manufatti si affiancheranno rovine, nelle varianti classiche e medievali, a celebrare il momento della malinconia, della silenziosa contemplazione e della meditazione sulla caducità della vita. Si deve considerare che, proprio in questi anni, si vede la nascita ufficiale del giardino inglese nelle sue più significative espressioni. Intanto si va affermando la Grande Loggia inglese fondata il 24 giugno 1717 (festa di San Giovanni Battista) e la Grande loggia di rito scozzese, fondata nel 1735. Tale concomitanza temporale è significativa e la nuova cultura filosofica condizionerà anche la nuova idea di giardino, che acquisterà valore di spazio privilegiato e riservato ad una ristretta cerchia di persone. Qui si ritroveranno non più per partecipare alle sfarzose feste, ma per condividere momenti di riflessione e meditazione, seguendo le suggestioni che proprio il luogo è ora in grado di offrire, quale palinsesto di segni e significati profondi e spesso occulti. Certo è che nel corso del secolo XVIII, contemporaneamente al diffondersi degli ideali massonici, gli ambiti del verde acquistano contenuti sempre più complessi fino a costituirsi come veri e propri portavoce di un messaggio evocativo, quindi anche luogo dove, attraverso un ampio repertorio di segni e simboli, è possibile ritrovare le principali tappe di un percorso iniziatico. La cultura massonica, soprattutto in Umbria, vedrà rafforzata la sua influenza nei vari ambienti aristocratici e borghesi, anche nel secolo XIX, quando nel 1811 viene fondata la Loggia perugina denominata “Fortezza dell’Oriente di Perugia”, cui aderirono, sia direttamente sia attraverso rapporti di parentela con i maggiori esponenti della loggia, le più importanti famiglie perugine, come quella degli Oddi Baglioni che, a partire dal 1645, acquisì la proprietà di un’altra importante residenza umbra: Villa del Cardinale. Quest’ultima presenta numerose assonanze con la Villa Boccaglione, anche nell’assetto dei giardini. Infatti, proprio tra il 1729 ed il 1795 si svolsero importanti interventi di sistemazione degli spazi di pertinenza della villa, in concomitanza quindi con quanto stava accadendo nella nostra Villa bettonese. Anche per Villa del Cardinale, si assiste al passaggio dai giardini cinquecenteschi, alle modificazioni di gusto francese, fino ai grandi lavori del parco secondo la nuova concezione inglese del giardino paesaggistico e del giardino romantico-simbolico. In questa Villa, dipartendosi dal sistema dei giardini geometrici e dai grandi parterres, si estende una vasta zona boschiva, lasciata a rustico, ma attraversata da sentieri e punteggiata da diversi elementi e manufatti, come il lago navigabile con l’isoletta centrale, il tempietto e la statua di Ercole (ora non più presente), il piccolo ponte di foggia orientale, la capanna, i grottini, le vasche ed i ruscelli. In questo gran proliferare di elementi simbolici è sempre possibile rintracciare la composizione della scena iniziatica che implica il superamento di una serie di prove significanti, le fasi dell’evoluzione morale e spirituale dell’aspirante iniziato. In questi parchi le manifestazioni naturali del mondo assumono valore simbolico: anche il forte contrasto tra luce e oscurità, quale allusione all’idea della simultanea presenza di vita e morte, è capace di porre l’osservatore in una condizione di riflessione e meditazione al fine di meglio affrontare il proprio percorso che dal mondo della natura conduce al mondo della elevazione spirituale. Concludendo, è possibile provare a rintracciare, anche nelle specificità dei giardini della nostra Villa ed in particolare in quello definito “arcadico”, un qualche elemento particolare utile a rafforzare l’ipotesi della presenza del folignate Piermarini, tentando un raffronto con il parco della Reggia di Schönbrunn (1773), realizzato secondo il gusto sobrio ed “illuminato” di Maria Teresa d’Austria, con una grande ariosità dei parterres erbosi, con le statue di abbellimento e il loggiato al piano terreno, tutte caratteristiche presenti anche nella Villa bettonese. Va ricordato, inoltre, che Piermarini, in qualità di architetto reale, eseguì per la regina d’Austria, il progetto della Villa di Monza, poi residenza del figlio Ferdinando D’Asburgo-Este, nuovo Governatore della Lombardia. Il verde della Villa venne commissionato dal conte Ludovico Barbiano di Belgioioso, figura di spicco della nobiltà milanese e della corte asburgica, come parco per la sua lussuosa residenza. La realizzazione, compresa tra il 1778 e il 1783, dapprima disegna un impianto formale ispirato alla moda francese, secondo schemi geometrici e regolari, più tardi verrà ampliato con la realizzazione del giardino all’inglese, nell’intento di connettere, in una percezione unitaria, gli spazi assegnati al verde con il paesaggio circostante. Il giardino all’inglese progettato da Piermarini, ma realizzato nel 1793 dall’architetto viennese Leopold Pollack, allievo dello stesso, rappresenta il primo esempio in Italia. Il ruolo di precursore assunto dall’architetto folignate nella realizzazione del verde secondo lo stile importato dall’Inghilterra, apparentemente naturale, anche se frutto di una precisa progettazione, è attestato da Ercole Silva nel trattato Dell’arte dei giardini (1801-1813), che lo identifica come “il primo (…) a dare saggio dè giardini inglesi”, pur nella scelta di compromesso con il giardino formale. Se quest’ultimo rappresenta la soluzione più adatta ad esaltare e celebrare il potere del principe o, in una diversa scala, del signore o del nobile, l’innovazione nella realizzazione di questo originale giardino, perseguita dal progettista Piermarini e dal committente, attesta la cultura e l’aggiornamento di entrambi in relazione alle innovative tendenze stilistiche e culturali che si andavano affermando a livello internazionale. Volendo quindi dare seguito a questa suggestione attributiva, si possono intravedere nei giardini della Villa Boccaglione tutte le specificità che connotano l’evoluzione culturale del maestro folignate, la cui visione critica del passato non conduce mai a formalismi gratuiti e di maniera, ma riesce a cogliere nelle esperienze passate, nel gusto della sua contemporaneità, come nelle novità precorritrici del futuro, quanto di più valido vi è adattandolo e interpretandolo, di volta in volta, sempre con estrema sobrietà e buon senso.
L’ACQUISIZIONE AL PATRIMONIO DELLO STATO E L’AVVIO DEI RESTAURI
Il primo formale riconoscimento dell’interesse culturale della Villa del Boccaglione e il Parco annesso risale al 23 giugno 1956, anno in cui, con Decreto del Ministero della Pubblica Istruzione emesso ai sensi della Legge 1089/39, ne viene dichiarato l’interesse particolarmente importante poiché: “pregevole ed imponente esempio di villa settecentesca, edificata dalla famiglia patrizia perugina dei Della Penna, circondata da un grande giardino con “labirinto”, ed assai ricca nell’intorno, che ospita un teatro dell’epoca, di vaste decorazioni a tempera”. Il Decreto Ministeriale venne notificato al proprietario “Sig. Fedeli Dott. Alessandro fu Zeno” in data 14 febbraio 1956. Sempre ai sensi della storica Legge di tutela delle cose d’interesse artistico e storico, n. 1089/1939, in data 23 febbraio1968 venne emesso un nuovo Decreto del Ministero per la Pubblica Istruzione che aggiorna il precedente decreto e dichiara l’interesse particolarmente importante della “monumentale villa settecentesca detta del Boccaglione”, poiché, “posta ai piedi di Bettona, è formata da un grande complesso, la cui partitura mostra influssi francesi per la precisa divisione in grande corte d’onore (parterre d’ingresso ove si affaccia la cappella) e, attraverso i monumentali portali, gli antichi servizi (scuderie) e il giardino delle limoniere, nel palazzo di abitazione, nel grande giardino prospettico con disegno all’italiana nelle aiuole a siepi di bosso, che si conclude nel fondo con un folto bosco, contenente un teatro verde (…). La severa espressione architettonica del monumentale palazzo è movimentata dalla grande scalea ad emiciclo – anch’essa lontanamente legata ad esempi francesi – e dal grande portico sul giardino all’italiana; espressione architettonica che già tuttavia contiene motivi neoclassici, anche se alcuni particolari – nicchie nei punti di congiunzione dei corpi – sono ancora squisitamente barocchi.”. Il Decreto Ministeriale venne notificato al proprietario Sig. Fedeli Alessandro, in data 7 maggio 1968. Un altro provvedimento di tutela, questa volta indiretta, fu con il Decreto Ministeriale del 6 aprile 1998, ovvero a seguito del perfezionamento della procedura di acquisizione al patrimonio statale del complesso. Con questo atto vennero dettate le condizioni di salvaguardia dell’integrità del complesso monumentale e delle sue condizioni di prospettiva, luce, cornice ambientale e decoro. Il provvedimento viene notificato al proprietario Sig. Iraci Fedele Leone. Con la istituzione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali (1974), la Soprintendenza dell’Umbria, tra le sue prime attività sul territorio, avviò il rilievo del complesso monumentale, condotto con le tecniche del rilevamento tradizionale. Quest’ultimo unitamente alla documentazione desumibile dalle fonti indirette, ha costituito un elemento prezioso per l’analisi storica, insostituibile soprattutto come lettura storica, calata concretamente sulla fabbrica reale e tangibile, e fase propedeutica e irrinunciabile di conoscenza del “testo” architettonico, a supporto delle scelte di restauro. Non si può infatti prescindere da quella comprensione piena dell’opera che può essere fornita in prima battuta solo, o principalmente, da un sistematico e attento rilievo, come lettura critica del testo monumentale. Il ridisegno, così inteso, non sarà dunque da ritenersi un’operazione meramente tecnica e neutra ma, potenzialmente un processo filologico e un’operazione critica – come del resto il restauro – che induce all’assidua e tangibile frequentazione dell’opera, unitamente al confronto con tutte le fonti possibili anche indirette. Le vari fasi di restauro, affrontate nel processo di recupero della Villa, hanno testimoniato, e continuano a testimoniare in tal senso, l’esistenza di un rapporto fondante, tra il rilievo e il restauro. La mediazione tra essi è costituita dalla filosofia del restauro, dalle concezioni della storia, dai metodi storiografici adottati, dalle posizioni circa l’estetica, assunte nei fatti, e infine dall’approccio progettuale. Tutti questi supporti gnoseologici costituiscono quindi il necessario sostegno ad ogni intervento comunque calibrato. La ragione vera del restaurare è proprio nel proiettare nel futuro, nel tramandare residui e valori del passato, possibilmente contestualizzati e dunque meglio decodificabili. Sono gli inizi del 1980 e il complesso è in grave stato di abbandono ed ha già subito umilianti spogliazioni: mancano totalmente gli arredi, porte e le finestre sono divelte, le mostre in stucco degli antichi camini sono asportate, come risultano mancanti gli specchi del grande salone che dagli stessi ha preso il nome. Dei raffinati originari abbellimenti quindi, ben poco resta ed è già iniziata l’attività dolosa di rimozione dei pavimenti, degli elementi in cotto della scalinata e del balcone retrostante, mentre continuano le azioni vandaliche di danneggiamento delle fontane e degli altri arredi dei giardini. Occorre tuttavia aspettare l’azione di prelazione alla vendita esercitata dal Ministero cui segue, in data 5 luglio 1991, il contratto di vendita dell’immobile denominato Villa del Boccaglione da destinare a sede istituzionale della Soprintendenza per i B.A.A.A.S. di Perugia ai sensi della Legge 449/87. Il contratto viene approvato e reso esecutivo con Decreto Interministeriale (Beni Culturali e Ambientali e Ministero delle Finanze) del 18 marzo 1992. Il complesso viene pertanto ascritto al patrimonio statale con presa in possesso da parte della Soprintendenza il 10 maggio 1993. Nello stesso anno la Soprintendenza avvia i primi urgenti interventi di bonifica generale dei giardini, del parco e dei fabbricati, Villa compresa, per liberarli dalle macerie dei crolli e dai materiali impropri depositati nel corso degli anni, anche al fine dell’avvio dei cantieri di restauro. Le prime operazioni di recupero continuano con la realizzazione della recinzione dell’area demaniale e con il complesso intervento di consolidamento e rifacimento della copertura della Villa e degli altri fabbricati. Si procede inoltre al consolidamento delle murature verticali e del coronamento sommitale, alle riprese, anche se parziali, degli intonaci interni con la riproposizione delle tinteggiature esterne, sulla base di un’attenta analisi delle murature della Villa. Le peculiarità costitutive e compositive che caratterizzavano e caratterizzano l’organismo murario, dal punto di vista statico e strutturale, potevano essere così riassunte: gli elementi portanti in elevazione presentavano una muratura in pietrame o in pietra mista a laterizio; i piani orizzontali erano costituiti in parte da strutture voltate in laterizio ad una o due teste, in parte in solai orizzontali con struttura lignea con inserimento di volte leggere in camorcanna in corrispondenza dei più ridotti ambiti di raccordo. La copertura, realizzata intorno al 1984 con sostituzione di quella originaria in legno, presentava una struttura portante in cemento armato con travi di coronamento, secondo le modalità progettuali ed esecutive imperanti in quegli anni, successivamente rivelatesi inopportune in quanto eccessivamente invasive, consistendo in inserimenti di sistemi troppo rigidi e incompatibili con le caratteristiche murarie e strutturali degli impianti storici. Il primo impegnativo intervento ha inteso pertanto correggere tale condizione con la progettazione di un generale adeguamento strutturale della copertura anche attraverso la riproposizione degli schemi costitutivi originari con l’utilizzo di elementi lignei. Successivamente si è proceduto al consolidamento del coronamento dell’ultimo livello e al restauro con riprese di porzioni dell’intonaco originario nei prospetti esterni e successiva riproposizione delle tinteggiature originarie. Contestualmente agli interventi di consolidamento venivano attuati gli altrettanto urgenti interventi di bonifica degli spazi in origine coincidenti con i pregevoli giardini che, tuttavia, al momento dell’inizio dei lavori, risultavano completamente negati e resi inaccessibili dalla vegetazione spontanea particolarmente invasiva per il protrarsi dell’abbandono. A partire da analisi preliminari e progetti di ricostituzione dell’impianto originario dei giardini redatti avvalendosi della storica documentazione fotografica, gli interventi vennero affidati con apposite convenzioni alla Comunità Montana. Sotto l’attenta Direzione dei Lavori assegnata all’Arch. Carla Bartelli, e con l’ausilio di maestranze specializzate, vennero ricomposti gli schemi delle originarie siepi di bosso del giardino ad esedra retrostante la Villa e del cosiddetto “giardino segreto”. Venne inoltre realizzato l’impianto di irrigazione e avviato il recupero dell’antico sistema idraulico di adduzione dell’acqua alle vasche e alle fontane. Questi interventi vennero attuati, pur se con discontinuità derivante dai finanziamenti resi disponibili, dal 1995 al 2007. Il primo importante progetto di recupero venne redatto dall’arch. Carla Bartelli, funzionario della Soprintendenza, nell’anno 1999. Esso prospettava una possibile destinazione d’uso indicando la Villa come “Sede istituzionale della Soprintendenza” e secondo questa programma, vennero avviati i primi interventi di consolidamento e recupero. Pertanto, l’intento si allineava con l’ipotizzata destinazione prevedendo uffici, laboratori, archivi, spazi per attività culturali e didattiche, foresteria e locali per il servizio di custodia. Il progetto esecutivo venne inserito nell’Intesa Istituzionale di programma di Governo – Regione Umbria – Accordo di Programma Quadro Beni Culturali – Piano triennale 2001-2003 Legge 662/96 art. 3 comma 83 – e venne finanziato nell’ambito del piano di spesa annuale 2001 concernente l’utilizzazione delle quote derivanti dal Gioco del Lotto. Il progetto definitivo venne approvato nel dicembre del 2002. I lavori vennero avviati con un primo appalto nel mese di febbraio del 2004. Gli interventi, previsti essenzialmente per il completamento delle opere di consolidamento delle strutture verticali e orizzontali, la predisposizione delle reti tecnologiche, degli infissi e il restauro degli elementi decorativi e degli intonaci esterni, proseguirono fino a tutto il 2006, utilizzando comunque un importo di molto ridotto rispetto all’importo definito dal progetto generale. Vista l’articolazione del programmato obbiettivo di recupero del complesso e in considerazione dell’intento di completamento dei lavori avviati, la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici dell’Umbria, provvide alla richiesta di un ulteriore finanziamento da individuarsi nell’ambito della programmazione ARCUS dell’aprile 2009. Il progetto generale, redatto con l’obbiettivo di dare vita ad un “Centro di studi internazionale per il Paesaggio in applicazione della Convenzione Europea per il Paesaggio”, venne approvato nel 2010 e l’anno successivo vengono avviati gli interventi che prevedevano la realizzazione dell’impianto di riscaldamento radiante e quindi il rifacimento delle pavimentazioni, la posa in opera di tutti gli infissi della Villa, il restauro dei collegamenti verticali, la ripresa degli intonaci antichi e relative opere di tinteggiatura, la predisposizione degli impianti tecnologici, nell’intento di rendere agibili e funzionanti i due piani e l’ingresso (piano accoglienza) della Villa. Questo obbiettivo risulta oggi per gran parte raggiunto, anche se le destinazioni d’uso, con l’ormai definitiva sede della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria all’interno dell’Arco Etrusco di Perugia, resta oggetto di nuova individuazione.
Ultimo aggiornamento
14 Gennaio 2025, 14:56